Il pallone è fermo sul gesso, in mezzo all’area di rigore. Gianni al quale il Dio del pallone ha forgiato i piedi, guarda a terra e resta fermo, lontano, assente. Il Dio del coraggio è non gli è altrettanto propizio e dove una divinità ha generosamente concesso, l’altra ha impietosamente tolto. Enrico è un eroe mitologico, ha mezza faccia sporca di sangue rappreso e mi pare di intravedere un elmo piumato sulla sua ridondante capigliatura. Dopo qualche minuto un avversario gli ha accarezzato il naso con il gomito. Uno normale sarebbe morto dissanguato, lui ha continuato a correre per tutto il campo, forse inseguendo il nemico intorno alle mura di Troia. Il sudore ha intriso la sua maglia, già sudicia di ogni colore raccolto sul campo di erba mal curata. I suoi piedi sono figli di Eolo, ma inadatti a colpire la sfera. Corre da quasi novanta minuti ed ha toccato la palla sempre e solo per sradicarla dai piedi di qualcuno. Il prof. gli ha detto tra il primo ed il secondo tempo: “giochi bene senza pallone”. Il che poteva essere un complimento. Poi ha aggiunto: “il problema c’è quando hai la palla in mezzo ai piedi”. Ora che quello della gomitata in faccia è stato sostituito, forse rientrato nelle mura assediate, sembra che Enrico, senza nemico, abbia perso la voglia di vivere. Marco ha sbagliato un rigore in semifinale ed a scanso di equivoci si è tirato fuori già negli spogliatoi. Non è un eroe ed infatti da grande farà l’avvocato.
Io ho il numero nove, ho segnato quattro gol durante il torneo ed indosso quella maledetta fascia bianca da capitano. Oggi qualcuno mi ha regalato una scritta rossa sulla fascia: “Hasta la victoria, siempre!”. Che cazzata! Il professore di educazione fisica, a bordo campo, sembra svegliarsi dal suo cronico torpore trasteverino, mi guarda negli occhi da non meno di quaranta metri e vedo in lui, generale già sconfitto, rinascere la speranza. Il Dio protettore dei deboli, inesausto dopo il suo sforzo a difesa dell’assedio alla nostra porta durato quasi novanta minuti, ci consegna l’occasione di entrare in trionfo nel campo nemico. Il professore urla il mio nome. Tutti mi guardano. Io guardo tutti.
Sulle gradinate dello stadio degli Eucalipti ci sono solo una cinquantina di ragazzi della nostra scuola, oggi è giorno di interrogazioni ed il giugno romano, sotto i tetti in lamiera del Socrate, per qualcuno diventerà torrido come fosse agosto all’equatore. Ma poi all’equatore ad agosto farà più caldo del solito? Problemi di chi deve ancora essere interrogato in geografia astronomica. Intanto Marianna è al mare: ha detto che improvvisamente il calcio le è venuto a noia… e forse anche io. Gli esami di maturità si avvicinano ed a me tocca segnare un rigore sul più bello di una finale sognata da tutti i ragazzi delle scuole romane. Il contro Midia di Demostene svanisce nei ricordi confusi delle discussioni da spogliatoio, Pirandello era il geniale centravanti della Roma del ’42 e Tacito, negli Annali, racconta le vicende di Pruzzo e Falcao. Una volta litigai con Gianni: “Se Falcao è un campione, perché non tira i rigori?”. Dissi io. E lui: “Perché non bisogna essere campioni per tirare i rigori”. “Così ” – conclusi – “la croce la porta sempre il Cireneo”. Mi sa che Gianni non ha mai capito quella frase perché è un po’ stupido.
Io più che altro penso a Marianna e penso che Marianna non è Penelope. Però è pure vero che Ulisse non perdeva tempo a tirare i rigori, almeno Omero non lo racconta. Però, lei, Marianna, pure se non è Penelope, un po’ di pazienza potrebbe averla!
Il numero nove avversario si chiama Faccetti e gioca nella primavera della Roma, fosse capitato a lui il rigore avrebbe bucato la rete, invece ripete il terzo commerciale da due anni, forse ignora chi sia Cicerone, se ne è stato apatico nell’altra metà campo per tutta la partita ed io ho l’occasione di dimostrare che uno del classico sa tirare i rigori. Tutti sanno che Michele, prima di venire al campo, si è fatto una canna, forse lui è più tranquillo ed adatto a trasformare la massima punizione. Lo guardo ma ha gli occhi quasi rigirati. Dio mio, se questo non smette di farsi un giorno o l’altro stira le zampe sul campo. Tocca proprio a me. Ma Marianna sta ad Ostia, qui neanche la traccia di Argo. L’allenatore della mia squadra “vera”, quella che gioca la domenica mattina, dice che non bisogna guardare il portiere quando si tira un rigore. Figurarsi se ne ho voglia. Dicono anche che se tiri un rigore forte, basso a mezzo metro dal palo è impossibile che il portiere ci arrivi. Già ma a destra o sinistra? All’oratorio il prete metteva una lattina di Coca Cola vicino al palo ed io la colpivo spesso quando era a destra, quasi sempre mi regalava un cornetto con la crema. A me non piacciono i cornetti con la crema, ma quello lo mangiavo di gusto. E’ meglio non cambiare. Poca rincorsa e via. In fondo è come sulle montagne russe, un attimo di incoscienza e passa tutto. Prendo due passi di rincorsa. L’arbitro fischia, io ho lo sguardo fisso sul pallone. Mi sa che tutti hanno lo sguardo fisso su quel cazzo di pallone. Mi raccomando di non guardare il portiere. Parto, alzo gli occhi ed ammicco a sinistra per ingannare il portiere, accenno a spostare il corpo come se tirassi proprio a sinistra. Lo guardo, lui non mi guarda: ha gli occhi fissi sul pallone. Anche questo raccomandano gli allenatori ai portieri. Gli allenatori dicono ai portieri di non guardare chi tira il rigore fino all’ultimo istante. Non ci avevo mai pensato al fatto che gli allenatori dicono ai centravanti come segnare i rigori ed ai portieri come pararli. Lui comunque si butta a destra, forse ha deciso in anticipo sui miei movimenti o forse si butta a destra perché io ho fintato di tirare a sinistra e pensa: “se finta a sinistra, tira a destra”. Lui si lancia in basso verso il palo prescelto da tutti e due. Così è la vita: se sei centravanti non devi scegliere lo stesso palo del portiere. Quante percentuali ci sono che il portiere azzecchi il palo giusto? Mi pare una su quattro, ma in matematica ho rubato la sufficienza. E’ furbo e svelto, colpisco verso l’alto per vanificare il suo tuffo a terra. Tiro fortissimo. Lui non ci arriva. Ora è consentito, forse doveroso, guardare il portiere. Ho il tempo di occhiare la sua faccia sconfitta mentre il braccio destro si allunga all’inverosimile verso l’alto. La palla sale fuori dal suo sforzo. Sale troppo. Tocca forte sotto la traversa, rimbalza in campo mentre il legno vibra del rumore del fallimento. Un rumore che nessun attaccante vorrebbe mai sentire. Arriva il loro numero due, grassottello ed irritante, spedisce la sfera in una zona fuori pericolo.
Tutti mi guardano ed io, di nuovo, guardo tutti. Tutti, poi, girano lo sguardo, perché intanto il cuoio arriva a Faccetti, proprio in mezzo al campo, mentre lui quasi è disinteressato alla mia tragedia. La palla, che evidentemente preferisce un piede buono, si posa sul suo scarpino destro. Tunnel al nostro ultimo difensore, cinque passi e divora parte dell’erba tra lui e la porta. E’ bello, alto, possente, capelli lunghi, palla al piede e testa alta. Guarda il nostro portiere che è ormai di sale al limite dell’area, disegna un pallonetto lunghissimo e lento. La palla, morbida, scavalca, naturale ed elegante, il nostro numero uno, rimbalza sul disco del rigore, si alza e ricade proprio sotto la traversa, l’accarezza disinvolta, la spolvera, la fa suonare di un rumore diverso e gonfia la rete. Applausi.
Applaudono anche i nostri compagni di scuola e fanno male. Arriva Michele: “Potevi lasciarmelo!”. “Mica è una canna!”, rispondo senza sapere da dove mi escano queste parole. Gianni mi guarda con un malinconico sguardo muto. Grazie della consolazione. E’ il fratello di Marianna, magari un pochino è anche colpa di sua sorella e del loro amico Antonio che l’ha portata al mare.
In pochi facciamo la doccia. Enrico è nosofobico e aspetta fuori, estrae dalla borsa sportiva il libro di storia, manco fosse Silvan con un coniglio. Gianni mi guarda e seguito a non capire, ha gli occhi esageratamente gonfi. Michele si arrotola l’erba. Dietro il muro cantano e “Oh Mamma, mamma, mamma, innamorato sono : ho visto Faccetti, ho visto Faccetti, innamorato sono…” La metrica è pessima però ci fa incazzare lo stesso. Entra il prof di Trastevere, bofonchia un “bravi lo stesso” a mezza voce. Mi guarda e brontola a voce altissima: “Cojone!”. Mi vuole bene e credo che abbia studiato il metodo Montessori.
Esco per ultimo dagli spogliatoi scortato da Gianni, Enrico ripone il coniglio nella sacca e ci avviamo verso la mia Opel Ascona smarmittata. Sono tutti tristissimi e preoccupati per me. Io no. Chissà se le mille lire di benzina generosamente offerte da Enrico all’andata ci riporteranno a scuola.
Pochi secondi e Gianni vede una persona seduta dentro la macchina, la riconosco per primo: è Marianna e sta piangendo. Cazzo: quante storie per un rigore sbagliato! Gianni tira via Enrico e si dirigono verso la fermata dell’autobus. Intanto esce Faccetti e firma pure autografi. Marianna apre la portiera, resta seduta in macchina e mi mostra il foglio di un laboratorio di analisi. E’ incinta. Trova la forza di un sorriso. E appena iniziata la partita, il capitano la gioca sempre a testa alta.
