Avevo scritto questo post nel 2012 soltanto perché la basilica di Santa Maria sopra Minerva, ospita, quasi nel silenzio delle guide e degli storici dell’arte, una bella statua di Michelangelo, il Cristo risorto, o Cristo Portacroce. Dal 2013, quando a fine anno interrogo le statistiche dei miei post su questo blog, scopro che la storia del Cristo risorto è la più visitata. Questo nonostante che la basilica sia saltata a piè pari dalle truppe di turisti, dirottati su obiettivi che evidentemente godono di una stampa migliore. Personalmente tra il Colosseo e Santa Maria sopra Minerva non esiterei a visitare quest’ultima. Eppure la Chiesa è lì, ignorata e nascosta tra il Pantheon, Via del Corso, La Biblioteca della Camera e quella del Senato, tra la Chiesa di Sant’Agostino, che qualcuno incrocia per la giusta fama della Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, Sant’Andrea, Sant’Ignazio….
Eppure dentro questa Basilica c’è un Michelangelo, già questo potrebbe bastarle per essere una delle Chiese più famose al mondo. Invece non basta.
E allora questo post mi è venuto a noia, perché credo che il suo successo sia dovuto solo a ricerche scolastiche che ne scopiazzano il contenuto ad uso e consumo di pigri professori del liceo. Ho quindi deciso di renderlo inservibile allo scopo, trasformandolo in una storia, la storia delle sfide che il complesso di Santa Maria sopra Minerva ha visto consumarsi dentro la Chiesa e nella piazza prospiciente. La sfida ultima, la mia, è di stimolare la curiosità di qualche ragazzo, che magari finirà con il chiedere al professore di fare un giro sul posto, invece di scopiazzare una ricerca da un blog piuttosto mal frequentato.
Pare infatti che il complesso architettonico di Santa Maria sia un luogo intorno al quale si sono consumate grandi e misteriose sfide. La prima trapela dal nome: la Basilica cristiana fu eretta sopra e, immaginiamo con un certo sfregio, il luogo del culto pagano dedicato a Minerva Calcidica. Ma questa, a Roma almeno, è una sfida abbastanza ricorrente, si pensi alla bellissima San Clemente, costruita sopra un antico Mitreo. A Roma, però, il gotico, stile architettonico del Nord Europa, sospetto sempre di oscure contaminazioni , non è mai stato visto di buon occhio. Eppure Santa Maria sopra Minerva può fregiarsi del titolo di essere l’un
ica chiesa gotica di Roma… senza però essere una Chiesa gotica. Il fatto è che a Roma non puoi importare una Chiesa gotica e realizzarla come se fosse una qualsiasi cattedrale tedesca, francese, britannica. La facciata non ha nulla di gotico! L’involucro è del tutto anonimo e il peso delle pareti perimetrali ha ancora un posto rilevante nella costruzione dell’edificio, priva delle caratteristiche vetrate che ammiriamo anche nel gotico italiano. Il visitatore che volesse accettare la sfida entrerà nell’edificio e osserverà che nell’interno regna un bellissimo disegno che contraddice con insolenza la facciata, uno stile slanciato e severo, impertinente, che ci piace pensare volutamente nascosto agli sguardi severi dei censori rinascimentali e barocchi. Gli affreschi di Filippino Lippi e il Cristo di Michelangelo, insieme agli arredi del XVIII e XIX secolo sembrano quasi schiaffeggiare il gusto di chi fosse innamorato di Saint Denis e Saint Etienne. Ma qui siamo a Roma e pesa il giudizio del Vasari, al quale si deve il termine gotico, come sinonimo di uno stile nordico, barbarico, capriccioso, contrapposto alla ripresa al gusto classico greco-romano rivisto dal Rinascimento. La questione è che il gotico di Santa Maria sopra Minerva ha vinto la sfida contro i secoli. Tutti i rifacimenti della Chiesa, avvenuti ad opera di architetti niente male (il Maderno, Antonio e Giuliano da Sangallo….) sono stati posti in essere per cancellare ogni traccia di questo stile tanto inviso nella Città dei papi. Soltanto nel 1848-55 Padre Girolamo Bianchedi riuscì a ripristinare un gotico posticcio, con un restauro che la Guida Rossa del Touring non stenta a definire infelice, ma che a me piace proprio per il suo carattere di rottura con i paradigmi rinascimentale e barocco che hanno fatto la bellezza di Roma insieme alla sua antichità.
Molto più conosciuto e apprezzato dai romani è l’elefante, disegnato dal Bernini e realizzato da Ercole Ferrata, che regge l’obelisco egizio e che contraddistingue la piazza antistante alla chiesa, nota a Roma come Piazza dell’elefante o, per i più anziani, Piazza del porcellino, vista la somiglianza del pachiderma berniniano al meno nobile suino. Anche quella del porcellino è una bella sfida che vale una storia. L’elefantino fu commis
sionato dai domenicani che quasi obbligarono il grande scultore e architetto a realizzarlo secondo i loro voleri (sorse una dotta discussione a proposito di un testo dal quale era tratta l’oscura simbologia dell’elefante e dell’obelisco risalente al IV secolo AC e ritrovato nel 1655). Il Bernini dovette cedere ai committenti che nell’occasione dimostrarono una certa dose di arroganza, ma si tolse la soddisfazione di orientare le terga dell’elefantino (da dietro del tutto simile ad un porcello) verso la facciata del convento dei domenicani. Si fece pagare profumatamente la commissione ed espose l’Ordine all’eterno scherno del popolo.
La sfida più grande, però, riguarda proprio la a statua del Cristo, che pure varrebbe da sola la visita a Roma. All’epoca della sua realizzazione Michelangelo era sotto contratto: vincolato da un impegno in esclusiva con i potentissimi e ricchissimi eredi Della Rovere che reclamavano di vedere conclusa la tomba di Giulio II. Il gruppo scultoreo impegnò l’artista per oltre quaranta anni, tra mille ripensamenti e contrasti con la committenza. Il risultato, un prodigioso manuale di scultura rinascimentale, è oggi, incompleto, in San Pietro in Vincoli. La cosa non va presa sotto gamba: immaginate Messi vincolato con il Barcellona che ogni tanto si assenta per giocare qualche ben pagata esibizione in giro per il mondo. Barcellona o non Barcellona sta di fatto che Michelangelo intese a modo suo questa esclusiva e, fortunatamente per noi, non si sottrasse ad altre prestigiose commissioni, che però, è evidente, non poterono coinvolgerlo a tempo pieno e che andavano portate a termine in fretta e furia, quasi fossero una scappatella clandestina. Una di queste opere è proprio il Cristo Risorto da collocare con tutta calma, in quattro anni dall’ordine, nella basilica di Santa Maria sopra Minerva.
Uno che da giovane ha scolpito la Pietà che ammiriamo in San Pietro, un Cristo risorto lo fa con la mano sinistra tra un caffè e uno schizzo. In realtà lo scultore, anche quando è un genio, deve fare i conti con il marmo e sappiamo bene con quanta cura Michelangelo scegliesse il materiale nelle cave di Carrara. Questa volta qualcosa va storto: quando si avvicina la conclusione dei lavori emerge dal marmo una venatura nera, proprio nella zona del volto del Cristo. L’è tutto da rifare, direbbe un conterraneo qualche secolo dopo! Sebbene i contratti tra notabili e artisti fossero una cosa seria, Michelangelo, che avrebbe dovuto concludere l’opera nel 1518, spedì a Roma soltanto nel 1520 la nuova versione del Cristo, al quale aveva lavorato il suo allievo Pietro Urbano, incaricato di concludere l’opera in loco. Abbiamo immaginato il Barcellona che obtorto collo sopporta i tradimenti del suo Messi, ora immaginiamo anche l’altra parte, dei committenti, tra questi un rampollo bene come Metello Vari, che si assicurano le prestazioni extra contrattuali della star dell’epoca e se ne vantano in giro. Immaginiamo però che il frutto di questo prestigioso incarico tardi a venire. Possiamo pensare alle pressioni, ai tempi che stringono e al genio costretto a consegnare il lavoro prima di averlo completato. Possiamo anche non immaginare, perché Metello scrisse ben ventisei lettere al Maestro, la prima delle quali, datata 13 dicembre 1517, denota una pazienza fuori dal comune. Ecco però che con due anni di ritardo arriva una statua da completare, affidata ad uno promettente sconosciuto. Purtroppo il giovanotto incaricato di completare la statua è così scapestrato da provocare gravi danni. Sebastiano del Piombo nel settembre del 1521 avverte il maestro di come stanno le cose. Urbano s’era intascato il danaro che Michelangelo gli aveva pagato in anticipo e si era perso tra gioco d’azzardo, bische clandestine, cortigiane e chi più ne ha più ne metta. Il maestro deve correre ai ripari, prima sostituisce Pietro Urbano con un altro collaboratore, poi si rende conto del cattivo risultato finale del lavoro e si offre di mettere mano ad una terza versione del Cristo. Metello è stanco di attendere, e poi la statua, pur sempre firmata da Michelangelo, non è così male. “Va bene così maestro”, magari mi fa uno sconticino e mi tengo tutte e due le statue, pure quella con la macchia in faccia… (di recente si è ipotizzato che sia quella custodita a Bassano Romano).
(la prima versione del Cristo Portacroce http://sanvincenzo.silvestrini.org/info/statua/).
Sulla fama della statua, certo una delle opere meno gettonate di Michelangelo, pesa sicuramente la poca soddisfazione che la stessa opera ha dato all’autore, ma si sa che Michelangelo era un perfezionista. Il fatto è che l’opera non colpisce come il Mosè o le Pietà, tuttavia si vede bene Michelangelo anche nel Cristo Portacroce, il quale rivela ancora una volta la continua ricerca s
ulle prospettive e le composizioni da parte del genio. L’avrà pur scolpita con la mano sinistra, quasi di nascosto e affidandosi a improbabili collaboratori, ma il Cristo di Santa Maria sopra Minerva è un’altra sfida vinta da Michelangelo sul marmo. La torsione del corpo di Cristo rispetto alle gambe e alle braccia e lo studio anatomico sono i segni distintivi della bottega del Maestro. Il raffronto con la statua di Bassano dimostra l’accento sulla torsione del busto posto da Michelangelo nella seconda opera, in linea con gli esiti dei suoi studi. Abbiamo già detto del mausoleo di Giulio II, ebbene in quegli stessi anni Michelangelo prima scolpiva e poi “torceva” ex post il Mosè, trattando il marmo come se fosse creta.
In tutta questa gloria c’è però una sfida che Michelangelo non riuscì a vincere: alla fine qualcuno era sempre chiamato a coprire le nudità delle sue opere. Dopo il Concilio di Trento, come il Braghettone dipinse drappi sui nudi della Cappella Sistina, un oscuro artigiano scolpì un bizzarro drappeggio bronzo a nascondere la virilità del Cristo.
