Può una persona che a stento balbetta in pubblico, probabilmente pedofilo, un papa che accede alla cattedra di Pietro attraverso intrighi e sanguinose manovre di corte, un uomo al quale Erasmo da Rotterdam dedi
cò un amaro scritto satirico Iulius Exclusus e Coelis (in cui il Papa si vede negato l’accesso in paradiso), può un uomo del genere aver promosso tanta bellezza?
Se pure si ignorasse l’epoca d’oro dell’arte vissuta a Roma sotto il pontificato di Giulio II, se anche non sapessimo nulla di Raffaello, Tiziano, Michelangelo, Bramante, basterebbe entrare in San Pietro in Vincoli per rispondere affermativamente a questa domanda.
Può il più grande artista del Rinascimento (mi prendo la responsabilità di questa classifica) aver copiato e poi, insoddisfatto, elaborato secondo la propria sensibilità artistica il Mosè?
Basterebbe prendere due riferimenti, il San Giovanni Evangelista di Donatello, e il Torso Belvedere per rendersi conto che queste due opere siano state un modello per Michelangelo, ma che al tempo stesso il soffio del genio le abbia come impregnate di energia, rese di carne viva, attraverso la carica dinamica di una torsione, di un gesto plastico e flessibile colto nel marmo, perfezionato una volta che la statua era già stata completata, una correzione sulla roccia, come fosse pongo. Ma anche questa mirabile torsione, questa dinamica, questo movimento vitale è stato copiato, rubato a qualcuno: basterebbe confrontare il Mosè con il Profeta Isaia di Raffaello. Certo, l’originale è un dipinto, la copia è marmo, ma tant’è che qualcuno aveva raffigurato prima la stessa tensione che ammiriamo nel Mosè.
Ad onor del vero si potrebbe obiettare che a sua volta Raffaello possa essersi ispirato per il suo Isaia all’Ezechiele dello stesso Michelangelo nella Cappella sistina. Il fatto è che i due artisti, che la leggenda vuole rivali e antiteci, non disdegnassero di prendere spunti l’uno dall’altro. Non sono certo impressioni: Michelangelo conosceva benissimo tutte le opere citate. Le aveva studiate, apprezzate, commentate. Una leggenda, quasi storia, racconta che lo stesso Giulio II, sotto il cui regno è stato scoperto il Torso in Campo dei Fiori, avesse ordinato a Michelangelo di completarlo, ma l’artista, si sarebbe rifiutato: quello che gli era stato affidato era troppo bello per essere toccato!
Così la storia ci parla di un papa, che i suoi contemporanei chiamavano il Papa guerriero” o “il Papa terribile”, che non pago di tutte le opere nate sotto il suo pontificato, commissiona la sua tomba al più grande artista di sempre (classifica ovviamente personale), con il quale ha sempre avuto un rapporto burrascoso. Per questa tomba il papa rende impossibile la vita al genio, lo minaccia, gli revoca e affida incarichi, ne decide fortune e pene. Ma quello è un toscano, un Bartali delle arti figurative: più è costretto a ricominciare da capo (immaginiamo quante volte abbia dovuto esclamare: l’è tutto da rifare!) e più ci mette foga e mestiere. L’artista lavora per decenni, interrompendo, riprendendo, litigando con mezzo mondo e con il potente committente. Alla fine il mausoleo non si fece, ci resta una statua, una sola statua. Ma è grandiosa, perfetta, pare che lo stresso Michelangelo abbia preso a martellate il ginocchio imprecando contro una statua che si rifiutava di parlare. Solo che agli occhi del critico, anche il più imbranato, non si può nascondere che la statua sia un plagio, una specie di collage, ma che mai un collage fu più felice (ancora classifica mia)!
Al moralista, se vogliamo allo storico, a cinquecento anni dalla morte del papa, basta la riflessione su uno dei peggiori pontefici al quale dobbiamo il più rilevante tesoro artistico di Roma. All’amante del bello la favola insegna che il genio non sarebbe stato tale se non fosse stato umile, non avesse accettato commissioni da un odioso despota e non avesse misurato le sue forze con quelle degli artisti ammirati e in qualche misura … copiati.

Un pensiero riguardo “Giulio II e il Mosè. Michelangelo e il plagio geniale.”