- Si può insegnare ad essere campioni?
1.1 La volontà di potenza e la capacità di apprendere

Massimo giocava in serie C, in un piccolo paese che non aveva mai avuto una serie C. E’ tuttora un bel ragazzo, alla moda e abbastanza forte. Ci ha messo poco a diventare un idolo del centinaio di persone che ogni domenica pomeriggio venivano a tifare per la nostra squadra. Anzi, divenne un personaggio nella nostra piccola comunità. Massimo era accompagnato da un’etichetta precisa: un buon atleta, ma con un pessimo carattere. La cosa non mi ha mai preoccupato: ho sempre pensato che è meglio avere in squadra un ragazzo con un brutto carattere che uno senza carattere. Certo lui a volte esagerava. Durante l’utima partita avevamo avuto un battibecco piuttosto sgradevole per una brutta battuta sbagliata sul finale di un set che si giocava punto a punto. Io volevo evidenziare che si era lanciato la palla troppo avanti e lui era partito con una serie di epiteti piuttosto pesanti. Al momento di rientrare in campo ho dovuto sostituirlo e lui passò il resto della partita ad insultarmi dalla panchina. Il lunedì non si presentò agli allenamenti e non avvertì dell’assenza. Il mercoledì entrò in palestra tutto tronfio, fece il riscaldamento senza dire una parola e io dovetti resistere dalla tentazione di allontanarlo. Ma non c’erano i dirigenti che mi avevano comunicato di doverlo escludere dalla squadra e feci di testa mia.
Al momento degli esercizi con il pallone Massimo mi si presenta davanti. Tiene nella sua manona il Molten da gara (vietato usarlo durante gli allenamenti) e mi dice:
- Coach, allora come debbo battere?
La domanda mi apparve strana. Il giovane era un tipo orgoglioso e ora mi chiedeva che fossi io a risolvere il suo problema. Certo, la cosa puzzava di sfida: visto che ti sei lamentato, dimmi un po’ come dovrei battere. Vediamo cosa sai fare.
Eppure: Coach, allora come debbo battere?, fu la domanda di Massimo e io dovevo partire da questo. Ma non potevo e non dovevo cadere nella sfida e nel tranello. Forse un buon allenatore avrebbe potuto insegnargli la battuta float in quattro passaggi. Un buon allenatore conosce la buona progressione di esercizi per insegnare una battuta float, un buon allenatore avrebbe potuto risolvere in mezz’ora il problema di un atleta abbastanza evoluto come Massimo. In rete gira un video di un ottimo allenatore che in cinque minuti ti spiega come eseguire alla perfezione una progressione di allenamento sulla battuta float. Ma, almeno in quel caso, siamo sicuri che con un buon allenamento avremmo consegnato chiavi in mano una buona battuta a Massimo? E poi io non sono un buon allenatore, di quelli che la federazione chiama a fare i corsi.
Pensiamoci bene: quanti atleti come Massimo ci fanno domande? Certo la domanda di Massimo, nascondeva insidie ma non per questo andava liquidata con superficialità.
Secondo un codice di onore abbastanza diffuso in palestra avrei potuto, forse dovuto, sorridere, prendere atto della vittoria, e comportarmi con il tono sicuro di chi era lì per spiegare e insegnare. Avrei potuto e dovuto, ma la realtà è un’altra: chi domanda dimostra di conoscere la cosa più importante. In termini socratici possiamo dire che chi domanda ammette di non sapere. Chi chiede mette da parte il proprio orgoglio e si affida al coach. Siamo sicuri che di fronte a tanta generosità e disponibilità, aprire il nostro manuale del buon coach e leggere come eseguire al meglio una battuta float sarebbe stato il metodo migliore? Conosco tanti ottimi allenatori che dinanzi ad una richiesta del genere si mettono lì, amabili e pazienti, e cominciano a spiegare, ad escogitare percorsi didattici ed esercizi. Raggiungono più velocemente e meglio di me il loro obiettivo tecnico. Non lo dico per falsa modestia, è realmente così! Il ragazzo imparerà a battere presto e bene, non ho dubbi. Ma questo percorso è veramente il più efficace?
Non lo so, lo dico sinceramente. Tuttavia il fatto che non ne sia sicuro mi insinua un dubbio. Sicuramente questo sistema della risposta sempre pronta e certa è buono, lo è per una, due partite, forse anche per un campionato, ma alla prima battuta sbagliata Massimo avrà un dubbio: siamo sicuri che il coach mi abbia spiegato bene come fare questa maledetta battuta float? Ma soprattutto quello che Massimo apprenderà sarà l’ottimo? Intendo: non ci sarà nulla di migliore? Non potrà apprendere di più e meglio? Ho visto tanti atleti ai quali si sono sgretolate improvvisamente tutte le certezze. Centrali che di colpo non trovano più il tempo per il muro, alzatori che dall’oggi al domani non riescono più a smarcare i propri attaccanti. Una gran parte dei problemi nasce quando cambia la situazione tipo: una rotazione diversa, il tifo che innervosisce, ma anche e soprattutto un cambio di allenatore o di metodi di allenamento. Altri ragazzi non trovano mai la via, provano e riprovano, ma alla fine rimangono dei mediocri giocatori. In un gruppo giovanile tanti riescono e tanti no, eppure il coach è lo stesso. Perché alcuni migliorano ed altri addirittura sembrano regredire? Le differenze fisiche e cognitive non bastano a spiegare il successo e l’insuccesso: a volte emergono i ragazzi meno dotati. Lo vediamo ogni giorno, anche in uno sport come la pallavolo, che attribuisce un ruolo determinante alle doti fisico-atletiche.
Se avessi spiegato a Massimo nel dettaglio ogni momento di una battuta, poi avrei dovuto esserci quando mi avrebbe chiesto del bagher, del palleggio, del muro…Il compito dell’allenatore è quello di essere d’aiuto a costruire un giocatore di pallavolo o di insegnargli oggi la battuta, domani il bagher, dopodomani l’attacco?
Infine la considerazione più importante la deriviamo dallo schema di Adler, uno dei padri dell’analisi, insieme a Jung e Freud. L’uomo sin dai primi giorni di vita sviluppa un senso di inferiorità. Il senso d’inferiorità si sviluppa nello spazio tra quello che il giovane è e quello che dovrebbe essere per far fronte ai compiti che gli sono posti davanti dall’ambiente con il quale interagisce. Il gap tra quello che si è e quello che si dovrebbe essere è segnato dalla volontà di potenza. Senza questa volontà di potenza nonbsibfa sport agonistico. Adler non si occupa di sport, ma credo che il nostro compito di allenatori e motivatori si giochi proprio su questo stimolo corretto alla volontà di potenza del ragazzo che abbiamo davanti. Più che altro credo che il nostro compito consista nel rimuovere gli ostacoli (tecnici, psicologici, ambientali) che ne impediscono il soddisfacimento. Di aiuto in tutto questo è quello che Adler chiama sentimento sociale e che per noi ha un nome molto più semplice: squadra. La squadra è il tutto del nostro allenare. Nonostante questo noi abbiamo davanti degli individui e su quelli dobbiamo agire per costruire una squadra. Avremo squadre migliori se gli individui si lasceranno aiutare dalla squadra.
Ma prima di occuparci della volontà di potenza come motivazione dello sportivo torniamo alla dinamica dell’apprendimento con un esempio storico.
1.2 Il caso: Coach Socrate
Socrate, come è noto non scrisse nulla. Una delle fonti quasi esclusive sul suo pensiero è costituita dai dialoghi del suo allievo più prestigioso: Platone. A volte, si sa, l’allievo travisa, a volte tradisce, mettendoci, sotto traccia, del suo. Il dialogo che a noi interessa, il Menone, è stato chiaramente travisato. O forse no. A me interessa comunque raccontarlo così:
al tempo Socrate era il coach di Atene e nel preparare la finale della World Leauge contro Tebe si ritrova a conversare nel Pala Pireo con il centrale e capitano della squadra, Menone. Menone, è un buon centrale, la bandiera di Atene, uno proveniente da una famiglia di sportivi, cresciuto in palestra, sempre il più forte in tutte le categorie giovanili, uno di quelli che potremmo classificare sotto la voce: predestinati. Menone ha tutto quello che un pallavolista può desiderare, gioca in serie A e all’uscita dallo spogliatoio c’è la fila di ragazzine che vogliono il suo autografo su una pergamena nuova di zecca.
Quel giorno, il giorno della nostra storia, dopo l’allenamento, Menone si trattiene in palestra, non ha voglia di parlare con i giornalisti e si mette alla ricerca di coach Socrate, il quale come al solito sta interrogando i ragazzetti delle giovanili su argomenti stravaganti. Nel palazzetto quasi vuoto si sentono echeggiare le domande del maestro: – perché la vittoria è da preferire alla sconfitta? Perché vincere è meglio che perdere?
I ragazzi guardano il soffitto, fischiettano, cercano di evitare il fuoco di fila delle domande. Menone sente molto la partita che si avvicina, è sfinito dagli allenamenti di Socrate, su e giù per i gradoni dell’Acropoli, a mangiar polvere, a spostare massi, a pestare la neve appena caduta. Un bello come lui a sudare come uno schiavo! Sarà la fatica ma quel giorno si pone domande importanti. Per ogni atleta c’è sempre l’incontro con il coach che può cambiargli la vita, per ogni coach c’è sempre un atleta al quale si può chiedere di più. Menone sa che la partita contro Tebe può consacrarlo campione. Sa anche che Socrate ha una parte importante in tutto questo.
- Coach, attacca il centrale, liberando dall’interrogatorio i giovani dell’under 14, – mi hai già insegnato molto, ma puoi insegnare ad essere un campione?
Già, la domanda di Menone è proprio questa: si può insegnare ad essere un campione? Si può insegnare ad avere la mentalità giusta?
Socrate, al quale i discorsi su bagher e ricezione andavano sempre stretti, attendeva questa domanda da una vita. Desiste volentieri dal proposito di inseguire i giovani atleti, i quali, approfittando dell’arrivo di Menone si erano prontamente dileguati, dimostrando di essere degni dell’astuzia di Ulisse, guarda il giovanotto su cui Atene ha riposto le speranze di vittoria, ci pensa su, tira una sigaretta, assapora il fumo, lo butta fuori e replica soddisfatto:
- Ma che cosa significa essere un buono sportivo, un campione addirittura?
Menone è uno disciplinato, è stato il capitano della squadra degli opliti e non ha dubbi su questo:
- essere un buono sportivo è rispettare il proprio ruolo e fare quello che il coach chiede. Il campione è colui che svolge il suo compito alla perfezione.
. Spiegati un po’… questa storia del compito da svolgere è interessante, chiede Socrate dinanzi al capannello di atleti freschi di doccia che nel frattempo si è formato intorno ai due.
- Un alzatore>>, prova a districarsi Menone, – ha il compito di servire la palla agli attaccanti ed è un campione se alza il pallone alla perfezione, un attaccante ha il compito di fare punto ed è un buono sportivo se fa i buchi per terra, un centrale è un campione se nessuno lo passa a muro! Vale anche per gli altri sport: un centravanti è un buono sportivo se fa tanti gol, un portiere se para, Filippide è stato un campione nel correre la sua maratona.
- Uhmmm, riprende scettico coach Socrate mentre tira ancora la sigaretta, che poi Socrate, si è scoperto di recente, era un antenato di Zeman, sempre mal disposto a rispondere a domande precise, – ti ho chiesto cosa significa svolgere il proprio compito e tu mi ha dato un mare di definizioni diverse… non ho ancora capito cosa significa per te essere un campione.
- Un campione è uno che è un modello per tutti gli altri e ha il rispetto dei compagni, taglia corto Menone prendendo fiato e guardando storto l’alzatore con il quale il feeling non era mai stato al massimo.
Il coach è soddisfatto:
- questa è una buona definizione e vale in genere per tutti i campioni: essere un modello! Bene. Quindi tu vuoi che ti insegni ad essere un modello per gli altri? Però, scusami, come fa un portiere di calcio ad essere un modello per un alzatore di pallavolo? E se un giocatore non ha il carisma della leadership non sarà mai un campione?
- Forse un campione>>, prova ad aggiustare il tiro Menone, è colui che V U O L E sempre la vittoria?
- Ma chi non desidera una cosa bella come la vittoria? Tutti gli sportivi sarebbero campioni! Risponde Socrate.
- Coach>>, sbotta Menone, ma io ti ho chiesto se mi puoi insegnare ad essere un campione, proprio perché mi aspetto da te un aiuto!
- Giusto!>> – risponde serafico coach Socrate, che con Menone non perde mai la pazienza – se posso insegnarti ad essere un buon atleta, essere un buon atleta deve essere una scienza, perché solo la scienza è insegnabile. D’altra parte tu hai voglia di essere un buon atleta, anzi essere un buon atleta non ti basta, vuoi essere un campione, perché questa cosa è buona e desiderabile. Quindi…, incalza serafico il maestro, se essere un buon atleta è un bene ed è una cosa che si può insegnare dovrebbe avere a che fare con la scienza e dovrebbero esistere dei maestri che insegnano ad essere buoni atleti… solo che io non li conosco…conclude con un sorrisetto ironico coach Socrate, tagliando corto e credendo di aver esaurito il suo compito.
A questo punto, l’ oppostone della squadra, un gigante con due mani come due palanche, un mercenario venuto dall’Est di nome Anito, sempre critico nei confronti di Socrate, si intromette:
- eh no, caro coach, non lo sarai tu un buon maestro, ma io ho giocato con tanti allenatori, ogni buon allenatore sa insegnare ai suoi giocatori ad essere campioni! Quando abbiamo vinto la coppa panellenica con Sparta…tu eri dall’altra parte della rete… e noi avevamo un allenatore che ci insegnava ad essere campioni! Noi abbiamo vinto… e tu hai perso!
Socrate si concede una pausa, tira un’altra boccata di Marlboro da esportazione (di cui faceva scorta durante le trasferte) e poi riprende quasi sussurrando: ma senti tu! e allora come mai se ognuno può insegnare ad essere un buon atleta, questi grandi allenatori hanno cresciuto certamente campioni, ma anche pessimi giocatori? Come mai il libero di Sparta in quella finale ha preso un’imbarcata di punti diretti sulla nostra battuta? Non aveva il tuo stesso allenatore?
- Dimmelo tu!, rispose acido Anito.
- Semplice, sentenziò Socrate, questi buoni allenatori insegnano la pallavolo, ma non sanno cosa significa insegnare ad essere campioni!
- Dimostralo!, fece Anito con l’aria impunita di quello troppo forte per essere sbattuto in panca.
Socrate, in silenzio, si avvicina alla tribunetta dove un ragazzino delle giovanili, scampato il pericolo dell’interrogatorio, si era fermato, sperando di cogliere qualche discorso sulla partita contro Tebe.
- Sai cosa è una battuta float?, gli fece a bruciapelo il coach.
- No, rispose il monello, imbarazzato ma tutto sommato felice di una domanda che riguardasse la pallavolo e non le solite famigerate stranezze alla Socrate.
- Quindi non sai farla?>>
- Certo che no, ammise deluso il ragazzino.
- Secondo te, disse Socrate,è più difficile da ricevere una palla che arriva dritta e regolare o una che se ne va a spasso per il campo con un volo simile a quello di una rondine….?
- Beh…una rondine come la prendo?
- Bene, disse Socrate, quindi per fare più punti dobbiamo imparare a battere una palla che poi se ne va in giro per il campo non ti pare?
- Certo!
- Se tu colpisci una palla e le dai un colpo forte con il polso a girare verso il basso, pensi che la palla vada dritta verso il basso o scodinzoli diventando imprendibile?
- Se ci metto tanta forza andrà dritta verso il basso, girando, rispose il ragazzino, confermando di essere il più sveglio della under 14.
- E se tu colpisci la palla in maniera secca, come se la tua mano fosse marmo, dove andrà questa palla quando perderà la forza che gli hai impresso? Manterrà la stessa traiettoria?
- uhmmmm…..se perde forza…vacilla e cade!
Socrate, per confermargli la bontà della sua buona risposta, lo invitò a pensare alla battuta che fece vincere la partita ad Atene contro Roma nella semifinale di Coppa.
- Si, me la ricordo: è caduta di schianto davanti ai piedi di quel rozzo ricettore!
E come dimenticarlo: il Pala Pireo esplose in un boato rumorosissimo alla caduta di quel pallone nella partita contro questa nuova squadra che si affacciava nel panorama delle Coppe mediterranee. Una squadra di antipatici bifolchi, ben palestrati e prepotenti, battuti da uno stravagante coach filosofo. Socrate chiuse gli occhi nel ricordo di quel trionfo, a dire il vero uno dei suoi rari trionfi in un mare di sconfitte, ma si rimise al lavoro facendosi di nuovo sotto con la battuta float:
- e quando la palla perderà forza la sua direzione sarà così precisa?
- Certo che no, sembrerà …. disorientata!
- Perché?
- Perché perderà la forza che la fa andare avanti dritta e veloce!
- Ottimo! E quindi questa palla sarà più difficile da ricevere?
- Certo che si!
- Allora vai in campo e fai una battuta difficile da ricevere.
Il ragazzino scese in campo, si riscaldò la spalla per pochi secondi (più per sembrare professionale che per convinzione) e si esibì in una splendida battuta float, la stessa che sosteneva di non saper eseguire.
- Visto?
Disse Socrate trionfante ad Anito e Menone lasciando il giovane in mezzo al campo senza ulteriori istruzioni:
. io non ho insegnato nulla a questo ragazzino, lui già sapeva come fare una battuta float, solo che non sapeva di saperlo.
Nel manoscritto che ci ha consentito di ricostruire questa storia si racconta che Socrate se ne andò tutto soddisfatto, che il ragazzino rimase tre giorni in mezzo al campo d’allenamento attendendo comandi, che Anito e Menone si interrogarono sul senso della risposta di Socrate fino a tarda notte e che Atene il giorno dopo perse miseramente la partita contro Tebe. Socrate fu esonerato e condannato a morte, a quei tempi non si andava per il sottile con gli allenatori! Purtroppo il manoscritto che ci è pervenuto è incompeto e non ci spiega l’esito di questa storia ai fini della domanda di Menone: un coach può insegnare ad essere campioni? Dovremmo cavarcela da soli.
1.3 NON SOLO PLATONE: CHOMSKY E LA PALLAVOLO INNATA!
Riguardo all’insegnamento nello sport credo due cose. La prima è che non conosco il modo migliore per insegnare la battuta float, così come ignoro quale sia la strategia migliore per insegnare la difesa, l’attacco o il muro. La seconda cosa in cui credo è che fornire a Menone e Massimo la risposta bella, pronta e confezionata sia un errore da evitare. Prendo sul serio la dimostrazione che abbiamo ricavato dal dialogo Menone (che è più fedele allo scritto di Platone di quanto non sembri!): il nostro centrale sa già come eseguire la battuta float. La regione secondo la quale un centrale sa già come eseguire una buona battuta float, così come la spiega Socrate, oggi ci appare ridicola. Sostanzialmente lo Zeman di Atene sostiene che l’anima, alla morte del corpo che l’ospita, prima di reincarnarsi passa un periodo nell’Ade, dove conosce tutto. Al suo ritorno nel mondo queste conoscenze sono nascoste: imparare ad eseguire una buona battuta significa ricordare quanto già sappiamo, perché visto nell’Ade.
Ma, andando oltre al mito, è veramente ridicolo tutto questo? Agostino, scrive oltre ottocento anni dopo Socrate, è cristiano ed è convinto che Dio ci offra un buon software ed un ottimo hardware già prima di nascere. Nel dialogo chiamato The coach, ops… De Magistro, userà per la conoscenza la bella immagine di un mosaico coperto di polvere. Conoscere è spazzare la polvere che si è depositata sopra questo mosaico. Conoscere è ricordare quello che per Socrate abbiamo visto nell’Ade, quello che per il cristiano Agostino portiamo già stampato nel nostro cuore.
Visto che ci poniamo non solo al centro del mondo, ma anche della storia siamo abituati a pensare all’antichità come un polpettone unico e informe: non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che Socrate e Agostino rappresentano universi molto distanti, distanti concettualmente quasi quanto noi e Agostino. Eppure, nonostante la distanza tra Socrate, Agostino e noi, molte scuole psicologiche e filosofiche contemporanee ci parlano di conoscenze che uomini e donne posseggono prima di iniziare a conoscere. Queste conoscenze sono nascoste già in qualche parte. Siano prestampate, risiedano nell’inconscio, o derivino da sensazioni e percezioni sulle quali non abbiamo riflettuto ma che abbiamo immagazzinato ha poca importanza. C’è in noi qualcosa che non aspetta altro che uscire allo scoperto: gli archetipi, strutture fondamentali del linguaggio, strutture e schemi che ci portiamo come marchi di fabbrica, anticipazioni irriflesse della conoscenza, lo stesso subconscio…. sono tutti elementi di un processo che viene descritto come all’opposto di un modello di conoscenza che descrive la mente dell’uomo come se fosse una originaria lavagna nera sulla quale i maestri scrivono liberamente.
In questo contesto uno studioso veramente interessante è Noam Chomsky, professore di linguistica al MIT, politologo, sociologo e tante altre cose. Per farla breve: Chomsky sostiene l’esistenza nell’uomo di una grammatica universale, una competenza, una specie di programmazione che ci è consegnata gratis al momento di nascere. Questo patrimonio naturale è quello che permette al bambino di elaborare frasi e giudicarle pertinenti al suo orizzonte linguistico a prescindere da quanto imparerà con i suoi maestri.
Una delle dimostrazioni utilizzate da Chomsky è questa: c’è un fatto nel quale ci imbattiamo tutti e che sottovalutiamo, ogni genitore insegna ai bambini le prime parole, ma loro imparano subito ad utilizzarle con una certa astuzia e soprattutto con una grande creatività. Noi li aiutiamo a balbettare “M A M – M M A”, diciamo con loro la prima volta “B E L L A”, ma poi loro passano al “Mammabella” con una sorprendente facilità. Un altro caso ancora più evidente è quello dell’ ipercorrettismo. Avendo appreso una regola tendenziale della grammatica o della sintassi, l’individuo può applicarla a casi apparentemente simili ma ai quali la regola non si applica. Ogni bambino romano tende a modificare le s in z: così tenderà a scrivere borza anziché borsa, morzo anziché morso. Avendo appreso questa nozione tenderà ad ipercorreggere utilizzando una struttura grammaticale anziché la ripetizione di singole nozioni: così sarà frequente trovare nel linguaggio scritto dei bimbi romani parole come sforso in luogo di sforzo. Nessun computer commetterebbe un errore simile. Nessuna mente umana, se fosse una tabula rasa sulla quale scrivere nozioni dal nulla, agirebbe in questa maniera.
Che c’entra questo con la pallavolo? Ovviamente per il nostro centrale il processo di apprendimento pratico è lo stesso che per qualsiasi altro essere umano. Utilizzo l’aggettivo “pratico” perché al centrale non interessa apprendere come si fa la battuta float, a lui interessa saperla eseguire. In realtà quello che conta per il centrale, come per qualsiasi altra persona che vuole apprendere, è chiaramente la grammatica del gesto, non l’apprendimento del movimento specifico. Ad un leone non interessa imparare a cacciare, al leone interessa saper cacciare quella zebra. Tuttavia se non imparerà a cacciare resterà digiuno e la zebra che in quel momento gli passa davanti vivrà a lungo. Resta valido in questo contesto il famoso esempio della canna da pesca e del pesce: all’affamato è meglio regalare la canna che un chilo di spigole. Ecco, noi crediamo che il nostro centrale chieda di usare la canna, piuttosto che di mangiare il pesce anche se dovesse supplicarci perché gli si dia ciò di cui sfamarsi in quel momento.
Per questo se un buon coach fornirà al centralone tutta l’assistenza necessaria e, cosa più importante, lo stimolo a trovare le soluzioni, a indirizzare la sua volontà di potenza, lui saprà applicarle con una perizia insospettabile e soprattutto con la creatività che gli è connaturale.
Se ci convinciamo di questo, il nostro modo di allenare non sarà più lo stesso.
Quello che farà la differenza sono due elementi: la creatività di chi impara e il suo impulso a raggiungere l’obiettivo, la motivazione. L’atleta alla fine non avrà una battuta stilisticamente perfetta? Può darsi (io comunque provo a fornirgli tutti gli elementi per imparare un gesto tecnicamente plausibile!), però quando il ragazzino troverà la sua strada alla battuta float, avrà acquisito per sempre una battuta efficace e, quel che più conta, sarà sicuro di aver imparato ad imparare. La cosa sorprendente è che farà tutto questo con maggiore efficacia se …. se non siamo stati troppo invasivi nel nostro processo educativo, che qualcuno, con termine orribile chiama “addestramento”.
Dobbiamo considerare un’altra cosa: non esiste solo il volley. Sembra ovvio, ma ovvio non lo è per nessun allenatore, il quale pensa volentieri che il mondo si esaurisca nel proprio quadrato 9×9. Quello della pallavolo è solo uno dei tanti campi sui quali si gioca la partita della crescita e dell’apprendimento. Lo sport resta un allenamento alla vita. Ho avuto la fortuna di avere quattro figlie: quando hanno cominciato a balbettare le prime parole, quando hanno iniziato a scrivere le prime lettere e compilare le prime operazioni di aritmetica ho sempre avuto la netta sensazione che noi adulti, con i nostri insegnamenti rigidi e preconfezionati, consegnassimo loro molto meno di quanto i bambini riuscissero a fare con la loro conoscenza creativa. Se sono stato duro con loro, sì lo sono stato, come a volte sono duro in palestra, ho tentato di esserlo sugli atteggiamenti, non sui contenuti, né tantomeno sui risultati. Anche per questo motivo spesso in allenamento lascio i miei giocatori e le mie giocatrici davanti al muro a provare un bagher, una battuta, un attacco. Li lascio in silenzio (il silenzio è solo mio, loro chiacchierano sempre!). Ci sono bravi allenatori che insegnano con una perizia che non mi appartiene a caricare il braccio per l’attacco, ad alzare la spalla per correggere la traiettoria di un bagher, a dare il corretto colpo di frusta per un attacco o per una battuta top spin. Inutile prenderci in giro: questo loro metodo funziona! Funziona bene! Non so però se funziona al meglio!
Il segreto della riuscita di un metodo tradizionale è nell’enorme numero di ripetizioni corrette, nel volume. Più volte il ragazzo esegue correttamente un gesto, prima e meglio lo inserisce nel proprio bagaglio di abilità e potrà utilizzarlo anche in partita, senza stare troppo a pensarci sopra. La progressione psicologica di questo sistema è elementare:
- un gesto corretto riceve un rinforzo (un premio, un apprezzamento, la constazione dell’efficacia dello stesso gesto);
- una serie congrua di gesti corretti crea un’abitudine (habitus/abilità), una perizia acquisita,quasi per sempre, che permette all’atleta di eseguire correttamente i suoi bagher e le sue battute senza starci a pensare sopra.
Come dal singolo movimento ben eseguito, dal rinforzo che ne deriva (il punto, l’apprezzamento del coach), le infinite ripetizioni, si costruisce un’abilità che dovrebbe accompagnare l’atleta per sempre. Al contrario, da un errore non corretto, se ripetuto, l’atleta imparerebbe a sbagliare. Eseguire una serie di esercizi nella maniera errata significa aver imparato a sbagliare. Per questo in molti riteniamo correttamente che se arriva in palestra un ragazzo di venticinque anni che esegue un fondamentale con buona efficacia, ma in maniera errata, forse è non è il caso di correggerlo. La correzione, in questo caso, non metterebbe in crisi soltanto il singolo gesto tecnico, ma l’abilità di gioco intera del giocatore, almeno fino a che il giocatore non abbia faticosamente conquistato una nuova abilità più corretta.
Tutto, nel metodo delle corrette ripetizioni, fila per il verso giusto. Il volume, gli stimoli, i rinforzi fanno la qualità del giocatore. Soltanto che, si sa, le abitudini sono dure a morire! Nella migliore delle ipotesi, nel metodo delle corrette ripetizioni, il gesto viene meccanizzato e il corpo del nostro atleta diventa una magnifica catena di montaggio che in partita è in grado di eseguire i fondamentali senza pensarci sopra. Tutto questo gli viene da fuori: non c’è alcun coinvolgimento interiore. La sua motivazione è affidata al caso. La sua volontà di potenza è orientata al mezzo, il gesto tecnico, non al fine: essere un campione! Funziona abbastanza.
Ma…c’è sempre un ma: come ogni catena di montaggio, anche quella del nostro atleta è soggetta ad essere sabotata. Il sabotaggio è il rischio che corre ogni sistema di apprendimento tradizionale.
Cade a proposito un aneddoto che riguarda l’origine dello stesso termine sabotaggio. All’inizio della rivoluzione industriale i telai delle prime fabbriche tessili funzionavano alla perfezione. L’industria tessile nasce in Francia e quindi dobbiamo fidarci in questo campo della terminologia derivata dal francese: oltralpe gli zoccoli di legno calzati dagli operai tessili si chiamavano sabots e bastava che un operaio che avesse qualche buon motivo di astio nei confronti dell’azienda si togliasse uno zoccolo e lo gettasse nell’ingranaggio per far saltare la produzione, sabotandola. Il corpo dei nostri atleti tanto più appare perfetto, con tutti gli ingranaggi che si muovono per il verso giusto, tanto più è fragile e vulnerabile. I sabotatori si nascondano in ogni momento della vita sportiva, familiare e professionale dei nostri ragazzi.
Il primo sabotatore potenziale di un atleta è l’atleta stesso, seguito, con il fiato sul collo, dai genitori. In questa speciale classifica sono distanziati e di molto: fidanzati e fidanzate, professori di educazione fisica, nonni, cattive amicizie. Il danno che procura un genitore ad un atleta resta l’infortunio più diffuso nel mondo dello sport! Sempre Adler ci parla del bambino viziato. Ce ne occuperemo in seguito. Qui basti dire che un genitore, che ingenera nel figlio la sensazione che ogni suo bisogno sarà soddisfatto dalla mamma, che non l’aiuta a crearsi uno stile di vita corretto e adatto al soddisfacimento della propria volontà di potenza, distruggerà tra l’altro un campione di pallavolo. Il ragazzo crollerà probabilmente alla prima difficoltà, sarà un professionista negli alibi e presto mollerà sport e squadre.
Che fare allora per preservare i nostri campioncini? Certo è che con questo esercito di potenziali sabotatori in agguato è sempre preferibile non progettare atleti sul modello delle macchine. E’ preferibile che le nostre ragazze e i nostri ragazzi sbattano la testa con i problemi dell’apprendimento e del rendimento e si correggano da soli creandosi un efficace stile di vita e di gioco: saranno meno perfetti ma molto meno vulnerabili. Certo, anche io cerco, a volte con incoerente caparbietà, di offrire loro gli strumenti che reputo necessari e a volte non resisto alla tentazione di essere io a sbattere violentemente contro le loro teste, ma la soluzione deve essere la loro. Deve nascere dal punto più profondo del loro intimo. Il coach, in maniera discreta, è colui che rimuove gli ostacoli. Se disegno un punto sul muro che debbono colpire con un bagher e lancio loro una palla spostata rispetto al bersaglio, dovranno ricordare da soli come correggere con spalle e gambe il piano di rimbalzo. Ci mancherebbe altro: io non credo che abbiano visto queste cose nell’Ade e sinceramente non credo neanche che gliele abbia infuse Dio, spero anzi che il buon Dio non abbia perso tempo con la pallavolo e ci abbia impresso qualcosa di più importante. Sono la mente, le esperienze accumulate e la percezione sensibile rimasta non riflessa o inconsapevole, che ci offrono su un piatto d’argento la soluzione: quella soluzione sarà per il ragazzo sempre più importante e solida rispetto qualsiasi insegnamento impartito. La filosofia scolastica chiama le sensazioni ricevute phantasma… perché queste sensazioni producano conoscenza debbono essere organizzate e il phantsma deve essere recte dispositum. Tra queste conoscenze irriflesse naturalmente ci sono quelle derivate dalla squadra e dalle compagne e compagni di allenamento: a giocare con gente brava si diventa bravi. Su questo credo che ogni allenatore abbia da scrivere libri. Società che hanno squadre di atlete più evolute vedranno migliorare più velocemente anche le bambine del mini volley. Quando mi sono trovato a fare il pioniere in paesi che non avevano mai visto una rete di pallavolo ho riscontrato grandi difficoltà di apprendimento per le ragazze, proprio perché era evidente che nella fascia di età sensibile queste ragazze non avevano punti di riferimento fuori da quello che facevano in palestra con il loro allenatore. E’ bastato convincere qualche giocatrice più evoluta a partecipare alla squadra per constatare un generale progresso di tutte le altre.
A volte, anche questo è sotto gli occhi di tutti, ci sono ragazzi che non ne vogliono sapere e dopo una lunga e faticosa serie di tentativi ci scappa qualche urlaccio, ma sempre con l’intento di ricondurre il capoccione di turno alla ricerca della soluzione, mai per imporre quella che io reputo la SOLUZIONE!
In questo mio metodo l’errore ha una funzione fondamentale. Abbiamo visto come nel metodo classico, che possiamo chiamare il metodo delle corrette ripetizioni e del volume, l’errore è giustamente visto come la peste nera, perché riprodurre errori crea l’abitudine ad eseguire il gesto in maniera errata. Nel metodo del ricordare come si gioca a pallavolo l’errore è positivo ed ha una funzione fondamentale. Se non correggi con le spalle e con la postura del corpo e delle gambe, il piano di rimbalzo porterà la palla lontana dal segno sul muro. Questo ti insegnerà che il tuo bagher non è giusto e sarai spinto a correggerti. Mi fido dei miei ragazzi. Impareranno bene, certamente meglio di quanto io possa programmarli.
1.4 COMPITI A CASA: LA GRAMMATICA DI SQUADRA!
Abbiamo detto della funzione sociale che aiuta la volontà di potenza. In realtà noi non cerchiamo di insegnare a diventare campioni. Noi vogliamo vincere le partite e le partite, a pallavolo, sono vinte dalle squadre, non (solo) dai campioni. Alla prima osservazione tattica di un nostro atleta (non ditemi che non ve ne aspettate una al prossimo allenamento!), sperimentiamo insieme a lei/lui e alla squadra diverse soluzioni. Per esempio: cadono troppi pallonetti avversari. Che sistema di copertura e difesa usiamo?
Bisogna essere autorevoli e dare la sensazione di avere la risposta, ma di essere aperti a soluzioni diverse …poi escogitiamo degli step per arrivare a risolvere il problema e dedichiamo sempre qualche minuto durante gli allenamenti della settimana a sperimentare la soluzione dell’enigma tattico. Per esempio: il libero copre sistematicamente il pallonetto su attacco avversario da posto 2, come si mette il muro? Chi copre il lungo linea? Il nostro muro è formato da atlete alte un metro e dieci e il libero passa l’allenamento ad essere preso a pallonate in faccia? E’ funzionale questa difesa per noi? Proviamo altri atteggiamenti…
Infine lasciamo all’atleta e alla squadra esprimere delle preferenze, evidenziamo pure con forza le nostre eventuali perplessità e le controindicazioni, troviamo una sintesi e sperimentiamo nell’allenamento del giovedì e poi in partita. Cerchiamo un genitore o un fidanzato che faccia un filmato della partita e rivediamolo insieme alla squadra il lunedì.
Magari abbiamo perso contro l’ultima in classifica, allenata dal collega più antipatico dell’universo (tanto sono sempre quelli antipatici che ci battono!), però alla fine avremo una squadra …. E prima o poi troveremo un buon sistema di copertura del pallonetto.
