3.2. I CARE

Il coach ungherese (cfr. Quarta parte, 1) ha bussato alla porta della mia mente in un momento in cui l’interrogativo sul rapporto tra atleta e coach era per me rilevante. Una ragazza che allenavo passava un momento molto difficile e ho tentato realmente di mettere in campo uno sforzo empatico per starle vicino e curarla con la pallavolo e qualche chiacchiera. Il resto del racconto è romanzato e drammatizzato forse in maniera eccessiva. All’epoca non avevo ancora riflettuto su alcune questioni legate al concetto di empatia, il mio era un interessamento autentico per una ragazza che conoscevo da tempo e che volevo aiutare. Tutto bene, ma credo che in casi così estremi si debbano osservare delle accortezze. Il coach ungherese soffre di una sindrome: si chiama burnout e può abbattere anche un toro se questo toro prende la forma di una persona sensibile la quale esercita attività che richiedono di prendersi cura del prossimo. Chi cade in una crisi del genere burnout è un essere generoso che sicuramente si è fatto carico non solo del proprio stress, ma anche e soprattutto di quello della persona che ha inteso aiutare. Se ci si brucia assumendo su se stessi le crisi di chi ci è intorno si finisce nel mettersi fuori gioco e non poter aiutare il prossimo.
Tornando a situazioni più frequenti, senza arrivare a casi estremi, la realtà quotidiana ci racconta che in palestra c’è un coach e ci sono dei ragazzi, che magari sono allenati per anni dalla stessa persona e che vivono periodi particolari della propria esistenza. In questi momenti particolari dobbiamo contare semplici problemi legati all’adolescenza, all’ingresso nel mondo del lavoro, ad una situazione sentimentale. Non dobbiamo mai dimenticare che fuori dai nostri palloni pressostatici c’è un mondo dinamico che corre alla velocità della luce.
Che fare dinanzi ad un ragazzo che vive un momento difficile significativo della propria esistenza? Questa domanda è ancora al centro dei miei pensieri e me la pongo tutte le volte che entro in palestra, specie quando alleno squadre giovanili. Purtroppo oggi le situazioni familiari non sono semplici: genitori che perdono il lavoro, separazioni traumatiche, disattenzione verso i figli, iper attenzione, problemi scolastici, problemi sentimentali, ma anche: alcool, droghe leggere e pesanti, diagnosi di DSA che nascondono disagi sociali e familiari, lutti Ogni coach conosce una casistica sterminata di problemi che interessano i giovani. Fortunatamente non sempre siamo dinanzi a situazioni di gravi difficoltà emotive, il problema del rapporto tra coach e atleta si pone sempre, anche in termini molto semplici: c’è un coach con il suo ruolo e c’è un ragazzo con una sua esperienza emotiva e la sua vita, materiale e affettiva. Queste due figure in palestra si incrociano oltre le questioni tecniche. Due individui si incontrano giocando ruoli diversi e per forza sono coinvolti in una relazione che nello specifico trascende il rapporto coach / atleta nel senso tecnico del termine. E’ forse l’ultimo dei problemi, ma il modo con cui si affrontano queste situazioni influenza anche i risultati sportivi. Come si rapportano le vite dei ragazzi e le vite degli adulti che hanno un ruolo così importante nella vita di questi giovani atleti?
Credo che questa domanda sia la domanda centrale per ogni allenatore che gestisca un gruppo in qualsiasi sport.
Il coach ungherese si è fatto travolgere dai problemi della sua pupilla, ma certo esiste un altro tipo di allenatore che si colloca sul versante opposto rispetto al misterioso personaggio prodotto dalla mia fantasia. Esiste un allenatore molto professionale e distaccato che non scambia che qualche parola in tutto l’anno con i propri giocatori, non dà spiegazioni ai genitori, mette in campo le formazioni esclusivamente pensando all’utilità immediata di una scelta tecnica e di formazione. Spesso questo allenatore è un vincente. Sicuramente offre un’immagine molto seria e professionale del proprio lavoro in palestra. Sorprende vedere come a volte i ragazzi siano molto affezionati ad allenatori così distaccati. Forse per ogni allenatore c’è un modo di rapportarsi all’atleta, sicuramente anche questo atteggiamento freddo e distante entra nella storia personale dell’atleta, al quale una figura così importante come quella dell’allenatore non può mai essere estranea. Il coach è sempre una figura importante nella vita di ciascun ragazzo.
A tutti noi che alleniamo da tanti anni sarà capitato di incontrare il Pierino che abbiamo avuto in squadra quando era un ragazzino: ora è un uomo, un po’ imbolsito, tiene affettuosamente un bambino per mano e ci riconosce per strada. Ci fermiamo a scambiare quattro parolee ci racconta cose del nostro rapporto passato tra atleta e allenatore che per noi non avevano alcuna importanza e che invece hanno segnato la sua vita.
Anche in relazione al gruppo l’atteggiamento dell’allenatore è determinante. Ci sono allenatori che potrebbero benissimo prendere il posto di un loro giocatore all’interno delle dinamiche di una squadra. Fanno parte della gruppo: entrano in tutte le dinamiche sociali e fanno parte del branco a tutti gli effetti. Se il loro ruolo di allenatore è forte e autorevole diventano veri e propri esemplari Alfa, altrimenti subiscono la forza del gruppo che alla fine si rivela acefalo, oppure li esautora per eleggere un leader funzionale percepito come più efficace. In genere questi gruppi, solo apparentemente paritari, alla prima crepa però esplodono con la violenza di un ordigno nucleare. Ho notato che quando esistono modelli in cui l’allenatore è una parte effettiva del gruppo, le cose vanno alla grande… finchè non si rompe il giocattolo e prima o poi, puntuale come una cartella di Equitalia la bomba esplode.
3.3 Un buon esempio di empatia funzionale, l’oratorio
Naturalmente anche l’atleta si pone il problema del suo rapporto con il coach. La tecnica di gioco, gli allenamenti, la squadra sono i tre elementi contro i quali ogni atleta batte la testa quotidianamente. Sullo sfondo, visto che stiamo parlando di sport, c’è sempre la partita della domenica, l’obiettivo agonistico. Un atleta si confronta con la vittoria e la sconfitta.
Cosa fa di un atleta un vincente? Sì, le capacità condizionali, fibre rosse e fibre bianche, nel nostro sport la statura, le capacità coordinative, sono tutti elementi che determinano il successo o l’insuccesso. Tuttavia a parità di condizioni, a conti fatti: avere un ruolo gratificante nel gruppo, sapersi allenare, puntare con convinzione ad un preciso obiettivo agonistico, avere un buon rapporto con gli allenatori e la squadra sono i fattori che fanno di un atleta un campione e di un mediocre un mediocre.
Questi elementi interagisco tra loro e si riassumono in un solo aspetto qualificante che determina il successo di un atleta: star bene con gli altri.
Guardando dall’altra parte del campo non c’è un buon allenatore che non comprenda quando il suo rapporto con i singoli ragazzi sia fondamentale al raggiungimento stesso dell’obiettivo agonistico e nel farli star bene nella squadra. Tutto questo rende, nella pratica di uno sport di squadra, ineludibile la domanda: come raggiungere il giusto coinvolgimento tra coach, squadra e ambiente?
Ci sono molti buoni modelli che possono essere studiati per delineare una situazione ottimale per un buon rapporto tra i componenti di una squadra. Tuttavia per rispondere alla domanda relativa al giusto coinvolgimento tra coach squadra e singoli atleti mi viene spontaneamente in soccorso la mia gioventù, passata in gran parte dentro un oratorio. Estrapoliamo, se possibile, la proposta cristiana dalla sua parte dottrinale e teologica e occupiamoci un attimo di un buon esempio di empatia tra educatore e educato, costituita dall’oratorio di Giovanni Bosco, ma anche dalla Scuola di Barbiana di Lorenzo Milani.
Cosa distingue un oratorio da qualsiasi altro gruppo? Tutti noi abbiamo presente come funziona un oratorio tipo. Preghiera e catechesi si intrecciano con il gioco, lo sport, le attività quotidiane. E’ utile però vedere come e perchè si giunge a questa organizzazione. Si parte da molto lontano: Sant’Ignazio, nel XVI secolo, ha messo nero su bianco un metodo per svolgere adeguatamente quelli che chiama Esercizi spirituali. Il nome dovrebbe far drizzare il pelo ad uno sportivo che si occupi di motivazione e che avverte sicuramente una tensione tra l’esercizio e lo spirito, una tensione che non è estranea al più laico degli atleti. Nell’espressione è racchiuso il significato di lavoro, sacrificio, allenamento del corpo, al quale in analogia si associa un identico lavoro per lo spirito, che in un contesto non religioso possiamo anche chiamare mente. Lo spirito del cristiano per raggiungere i suoi obiettivi ha bisogno di un instancabile, esercizio quotidiano. Gli esercizi spirituali di Ignazio sono un cammino faticoso ed instancabile che conduce la mente a raggiungere un livello altissimo di emancipazione da tutto ciò che la ostacola a vivere la propria dimensione più nobile. La mente dello sportivo va esercitata ogni giorno per supportare il corpo nel raggiungimento degli obiettivi. E’ sensazione diffusa tra tutti gli sportivi che l’esercizio dello sport faccia star bene dentro e che senza testa non si ottengono risultati. Naturalmente anche un monaco zen potrebbe dire la sua in proposito, ma ognuno parla di ciò che conosce meglio e so troppo poco dello Zen per poter scrivere qualcosa di sensato in proposito. C’è di più. Qualcuno in ambito cattolico reputa le due: l’esercizio fisico a quello spirituale vanno a braccetto. Già gli antichi avevano coniato il motto mens sana in corpore sano, ma è stupefacente che questa riflessione sia condivisa dal mondo cristiano, il quale evidentemente predilige l’aspetto spirituale a quello fisico. Ho conosciuto Gesuiti (sacerdoti della compagnia fondata da Ignazio) che erano anche atleti straordinari. Qualcuno di loro mi ha confessato di non distinguere la differenza tra corpo e mente: il mio corpo è disciplinato come la mia mente, la mia mente come la mia anima. Non a caso tutta la Compagnia di Gesù è un po’ una parafrasi della vita militare e cameratesca applicata alla vita religiosa, lo stesso Ignazio è stato un formidabile spadaccino.
Non possiamo però fermarci ai gesuiti con la loro sinistra attitudine alle armi! Contemporaneo di Ignazio era Filippo Neri, il fondatore storico dell’oratorio, poi ripensato così efficacemente da Giovanni Bosco. Ecco, se dovessi scegliere la differenza sostanziale tra la mia infanzia e quella dei miei figli, sceglierei l’oratorio, oggi praticamente estinto, ormai assorbito dalle mille società sportive, promosse anche in ambito parrocchiale e che non sono certo la stessa cosa dell’oratorio. Nell’oratorio la pratica esistenziale e quella sportiva convivono a tal punto che solo chi ha fatto sport in oratorio può comprendere fino in fondo. Eppure il modello preventivo di Don Bosco e il motto I care della scuola di Barbiana, sono uno strumento eccezionale in mano ad un allenatore di pallavolo, qualsiasi sia il contesto in cui si pratica sport. La differenza tra l’oratorio e una scuola calcio consiste in questo: l’oratorio si occupa del ragazzo, la scuola calcio del calciatore.
L’empatia che mi ha insegnato l’oratorio è quella sintonia autentica che corre tra l’educatore e il ragazzo in tutte le sue dimensioni. Nell’oratorio il catechista non fa catechismo, ma vive con i ragazzi. Se un ragazzo ha un problema è il problema di tutti, in tutti i momenti della vita oratoriana. Dopo un po’ la comunicazione tra il catechista/coach e i ragazzi è massima e riguarda tutta l’esistenza del ragazzo. Questo ha come effetto immediato che per ciascun ragazzo non esista un dentro e fuori l’oratorio, ma tutto si deve vivere alla stessa maniera con coerenza. Questo dovrebbe anche significare che per il ragazzo non esista neanche un dentro e fuori dalla propria volontà. Gli obiettivi che ci si pone in tutti i campi non sono imposti da qualcosa di esterno alla volontà del ragazzo proprio perchè l’educatore è dentro la vita del ragazzo e in continua comunicazione con il ragazzo. La differenza fondamentale tra gli obiettivi, ben sottolineata dalla scuola dell’autodeterminazione, è tra obiettivi che vencono calati dall’esterno e obiettivi interiori. E’ evidente che il primo passo per elaborare obiettivi che nascono dalla volontà dei ragazzi è quello di evitare che la figura del coach sia vissuta come figura estranea e distante dalla vita del ragazzo.
Non mi rassegno a questo, avendo un altro lavoro e non percependo redditi dalla pallavolo mi sono sempre rifiutato di allenare in “scuole di pallavolo”. Quando mi è affidata una squadra di adolescenti faccio ai genitori un rapido conto: tre allenamenti a settimana da due ore ciascuno, la partita la domenica, in qualche caso due partite a settimana, i contatti quotidiani tramite facebook, whatsapp e qualche telefonata fanno di me l’adulto con il quale i vostri ragazzi si relazionano quantitativamente in maniera preponderante. Pensateci bene prima di affidarli ad un allenatore di pallavolo! Per quanto mi riguarda, se mi limitassi ad un rapporto asettico di carattere tecnico sarei un fallito, non varrebbe la pena perdere troppo tempo con i vostri figli e voi spendereste male i soldi che servono al mantenimento della squadra, a pagare la palestra e le tasse alla federazione. Quello che spinge un allenatore dilettante, che mi spinge, a lavorare con i vostri ragazzi è la voglia e il desiderio di insegnare loro a fare squadra, a sacrificarsi per un obiettivo, a comprendere che se lavorano vincono, se si allenano male giocano male e perdono! Nel mio piccolo mi illudo di crescere e contribuire alla crescita attraverso lo sport. Lo spogliatoio è una Chiesa laica, lo sport è una religione senza preti e senza sacramenti. Esistono però il peccato, il sacrificio e la ricompensa. Esiste una tensione escatologica: la vittoria del campionato, la promozione in prima squadra, la realizzazione sportiva individuale e collettiva. Esiste una comunità, la squadra, esiste una liturgia, la partita! Per far questo io devo vivere con i vostri figli e respirare il loro fiato, non chiedetemi di non immischiarmi nelle loro vite, perché se non lo facessi sarei un perdente. A volte da questo ne nascerà un conflitto, a volte correggeremo le nostre rotte e lavoreremo bene insieme.
Con queste premesse credo che a questo punto della storia occorra pronunciare una parola che oggi rischia di essere abusata e per questo ha perso quasi del tutto il proprio valore, parliamo di: morale. Nel rapporto tra coach e giocatore, soprattutto se giovane, deve necessariamente entrare l’elemento morale. Per carità, nessun predicozzo! Una sola avvertenza: il coach si trova in una posizione di potenza nei confronti del suo giocatore e del gruppo. Deve essere consapevole che i suoi comportamenti incidono sulla vita, la psicologia, l’esistenza stessa dei ragazzi. Deve anche ridurre il gap di questo ruolo e permettere che gli atleti e la squadra esercitino un potere sul coach. Da questo ne deriva una responsabilità reciproca. Da giovanissimo allenatore ho sottovalutato questo aspetto e di conseguenza ho commesso molti errori. Ognuno trae le conseguenze opportune da questa consapevolezza, ma è necessario che questa presa d’atto preceda ogni comportamento.

L’ha ribloggato su vernini.