4 The Skinner box
-Tieni a dieta i topi!, ordinò il professor Skinner al suo assistente. Chiuse la porta con la solita cattiva grazia e uscì dal laboratorio.
-Dieta ridotta!, disse passando davanti alla finestra del laboratorio che affacciava sul vialetto di accesso al dipartimento “Edgar Pierce”, all’Università di Harward. Tornò sui suoi passi e aggiunse:
–dieta ridotta,
la troppa fame genera confusione! Devono mangiare la metà di quello di cui necessitano, devono aver fame, ma non troppa!, si sforzò di spiegare al suo assistente.
Il giorno dopo e i cinque giorni successivi il professor Skinner non tornò nel suo laboratorio. Il fatto non era insolito: a volte il professore si allontanava per qualche conferenza, a volte si chiudeva in qualche stanza per comporre le sue poco apprezzate poesie. Questa volte la moglie, raccontò più tardi, lo sentì lavorare di sega e martello, chiuso in cantina per l’intera settimana. Non osò disturbarlo. Al sesto giorno il professor Skinner si riaffacciò in laboratorio con un pacco voluminoso e pesante, incartato con i vecchi giornali che lo scienziato raccoglieva meticolosamente.
-Scartalo!, fece al giovane assistente, senza aggiungere spiegazioni.
-Ora ci occupiamo dei topi, intanto dieta ridotta anche per i piccioni!, intimò al ragazzo senza troppi convenevoli.
Per Skinner le cose erano semplici, ogni fatto era una conseguenza di qualcosa: l’assistente lavorava per essere pagato, lui lo pagava regolarmente, la conclusione logica era che l’assistente doveva lavorare attenendosi scrupolosamente ai suoi ordini. Punto. Non c’era bisogno di altro. Il ragazzo, Tom, senza fiatare, scartò il voluminoso pacco che si rivelò essere una grande gabbia. The Skinner box, come la ribattezzarono i posteri, la macchina del condizionamento operante, secondo quanto si affrettò di chiarire con enfasi in una subitanea conferenza il professor Skinner. All’interno la gabbia era divisa in tre scompartimenti, uno per ciascun topo, si permise di dedurre Tom, che aveva in cura solo tre topi e qualche piccione. All’interno di ogni scompartimento una leva collegata ad uno strano meccanismo. “Abbassa piano, la leva!”, concesse Skinner a Tom che osservava curioso. L’assistente toccò con delicatezza la leva e il meccanismo lasciò cadere alcuni fiocchi di avena da un piccolo serbatoio posto in alto.
-Chiaro?, chiese Skinner.
-Chiaro!, rispose Tom, che senza attendere invano ulteriori spiegazioni, prese i tre topi per la coda e li calò ciascuno nel suo nuovo alloggio.
Skinner estrasse dalla sua giacca vintage il suo taccuino, il lapis che usciva sempre da qualche tasca ( molto spesso per vergare le sue rime indigeste) e si accomodò su una sedia davanti alla gabbia. Tirò due righe a dividere in tre parti la pagina e le intitolò Mouse A, Mouse B, Mouse C. Poi fece cenno a Tom di sedersi accovacciato al suo fianco, intimandogli il silenzio con il dito indice dritto davanti alle labbra.
I topi, superato lo smarrimento iniziale, presero a girare in tondo, come ad esplorare i piccoli ambienti loro assegnati. I tre scomparti erano divisi da due fogli di latta, per cui i topi non potevano interagire tra loro. In realtà si trattava di tre gabbie in una, ciascuna con la sua misteriosa leva e il suo serbatoio di fiocchi d’avena.
Sicuramente il loro olfatto di topi affamati aveva avvertito la presenza dei fiocchi di avena, ma anche se ne intuivano la presenza, i bocconcini erano chiaramente fuori dalla loro portata.
Il più fortunato fu il topo b. Quasi per incidente si trovò con le zampette anteriori sopra la leva, la quale, sotto il peso dell’animale, si abbassò di scatto. Dall’alto piovve un po’ di avena. Al sorcetto bianco non parve vero: affamato com’era si lanciò sulla manna piovuta dal cielo! Skinner porse un sacchetto di avena a Tom e lo pregò di ricolmare con cautela il serbatoio. Poi cominciò a scarabocchiare al centro della sua pagina. Passò quasi mezz’ora che anche il topo C ebbe analoga fortuna. Il suo gesto fu più delicato e la leva lasciò cadere solo pochi bocconcini. Mentre Tom si avvicinava alla gabbia per rifornire i serbatoi, Skinner lo fermò con il braccio e gli intimò un perentorio -alt!.
Il topo b, il primo gratificato dalla manna, si era avvicinato alla leva e con forza, questa volta utilizzando il muso, la premette verso il basso, procurandosi ancora un po’ di avena. Il topo b, cominciò quasi subito e a intervalli più ravvicinati a procurarsi il cibo, azionando coscientemente il meccanismo. Anche il topo C, provò e riprovò finchè non ricevette il suo premio. Il topo A, che per incidente non ebbe mai la fortuna di incappare sulla leva, sarebbe morto dopo qualche giorno di stenti.
-Che cosa è successo? chiese Tom dopo dieci ore di osservazione silenziose dei topi!
– E’ la teoria del condizionamento operante, giovanotto! , chiosò il professor Skinner che sul suo taccuino aveva scritto non più di tre righe per gli spazi denominati Mouse b e Mouse c. In compenso l’ultima pagina del suo blocco note conteneva la più orrenda poesia mai partorita da mente umana.
4.1 Lucky, Sally, Argo e Athos.
Quando ho addestrato i miei fantastici cani sono stato tentato di utilizzare il sistema del professor Skinner, che invero si avvaleva anche di altri elementi oltreché quelli descritti nel racconto. Alla fine, complice mia figlia Sara, anche ai nostri amici a quattro zampe abbiamo insegnato a ragionare o almeno a fare qualcosa che potesse richiamare il ragionamento umano. A stimoli chiari e premianti abbiamo sostituito situazioni più incerte, contesti all’interno dei quali prendere decisioni. Insomma, tutti sono capaci a dare un bocconcino al cane e a farsi obbedire per ottenerlo. Proprio come un allenatore di pallavolo tradizionale, l’addestratore di cani, a forza di premiare una esecuzione corretta, crea un’abitudine. A dirla tutta ci sarebbe da aggiungere che al venir meno del premio il cane progressivamente disimparerà il comportamento. Comunque ancora una volta ci troviamo di fronte ad un sistema che funziona….fino ad un certo punto. Il mio cane dovrebbe aver imparato con il sistema delle corrette ripetizioni a premi (=condizionamento operante) a non uscire dal cancello aperto quando sente il meccanismo automatico che si aziona, ma è anche bravo a riportarmi la palla che gli lancio. Cosa succede quando gli lancio la palla fuori dal cancello aperto? E’ divertente osservarlo. A me basta vederlo esitare un attimo e guardarmi con la speranza di avere un’ indicazione sul comportamento da seguire per capire che il cane è consapevole di trovarsi di fronte ad una situazione nuova che gli impone una decisione. La vita è così! Non sempre, neanche per un cane, ti trovi davanti ad una situazione binaria: fai la scelta giusta ricevi un premio, quella sbagliata rimani a bocca asciutta! A volte non esiste una scelta giusta, a volte le opzioni sono troppo complicate, a volte non hai le informazioni giuste o complete!
Certo i nostri cani, quando si apre il cancello a volte evadono e a volte sembrano molto diversi da Lessie o Rin Tin Tin, sicuramente non si comportano come i topi del professor Skinner. Tuttavia alla fine abbiamo dei cani più veri e consapevoli di avere un rapporto più autonomo nei nostri confronti. Basta il mio Lucky per confutare Skinner e tutta la sua filosofia!
Anche un giovane atleta secondo alcuni fa qualcosa vagamente riconducibile all’apprendimento immaginato da Skinner: se gli dici bravo quando fa le cose giuste e gli tiri il mazzo di chiavi della palestra in testa quando sbaglia, alla fine farà quello che gli chiediamo. Ma vogliamo questo?
4.2.1 Il lato oscuro del pallone!
La PNL è efficace, ma non crea campioni, così almeno come credo io, d’altra parte ben si adatta al metodo che abbiamo chiamato delle corrette ripetizioni. Il metodo derivato da Skinner, nonostante le dichiarazioni contrarie dei guru della PNL, è al fondamento della programmazione neurolinguistica. Tutta la PNL si fonda su un presupposto: a determinate azioni corrispondono determinati comportamenti. Rafforzando alcune azioni con determinati strumenti (molto astuti), otteniamo dei comportamenti che incrementano la prestazione sportiva. A pensarci bene con la PNL si percorre lo stesso tragitto al ritroso. Proprio come per Skinner un comportamento esterno (la gratificazione) induce a mutamenti interni (uno stato d’animo positivo). Anche in questo caso lo stratagemma funziona. Non mi piace parlare a vanvera: prendiamo il concetto di ancora o di ancoraggio nella PNL. Prendiamo la definizione che se ne dà oggi su wikipedia: nella programmazione neuro linguistica (PNL), l’ancoraggio (anchoring) o ancora (anchor) è un processo di associazione di una sensazione fisica a una risposta interna. Viene utilizzato sfruttando uno stimolo sensoriale memorizzato per portare ad un cambiamento nello stato d’animo.
Come funziona tutto questo? Ancora una volta la teoria appare complicata, l’azione è banale. Non dimentichiamoci che la PNL è pensata per essere utilizzata da persone con una formazione molto settoriale. Poniamo che vogliamo creare nell’atleta uno stato di sicurezza nei propri mezzi sportivi. Lo induciamo a ricordare quando si è sentito sicuro della sua battuta e di quali sensazioni abbia provato quando ha eseguito un gesto efficace. Sempre wikipedia conclude: quando viene raggiunto lo stato d’animo desiderato, si ancora quella sensazione ad uno specifico innesco (trigger), ad esempio un particolare gesto con la mano. Si ripete il processo finché lo stato desiderato non viene condizionato dall’ancora. Ogniqualvolta si innescherà quest’ancora, questa riuscirà a portare il soggetto allo stato emotivo associato… Quindi all’atleta ben addestrato da un coach pnl basterà ad esempio schioccare le dita (trigger) per riappropriarsi di quella sensazione di sicurezza emotiva riguardo ai propri gesti tecnici che in quel momento è ritenuta utile al miglioramento della prestazione. L’output, per dirla così, è sempre il comportamento desiderato. Per questo non mi stupisce che la PNL sia anche utilizzata per tecniche di vendita, per la fidelizzazione di politici ad un gruppo, per ottenere comportamenti performanti. Una furba e dotta evoluzione della macchina per topi di Skinner!
Platone e Chomsky si collocano dall’altra parte dell’universo. Nell’apologo del bambino e della battuta float ho reso, forse in maniera grottesca, uno dei più noti esperimenti pedagogici che è proprio raccontato nel libro intitolato Menone e che credo sia agli antipodi della filosofia PNL. Socrate convoca uno schiavo e, dopo essersi accertato della sua completa ignoranza nelle questioni della geometria, lo induce, attraverso opportune domande, a dimostrare il teorema di Pitagora.
Certo oggi le nostre conoscenze scientifiche e filosofiche si sono portate molto avanti. Questa storia dell’Ade proprio non regge! Sicuramente però molti concordano sul fatto che alcune “anticipazioni” delle conoscenze ci sono date da una serie di elementi. Sensazioni che immagazziniamo in maniera inconsapevole, imitazione, elaborazioni di precedenti conoscenze. Quasi niente ci viene calato dall’esterno, la conoscenza non è una scrittura in gesso su una lavagna nera.
Io credo che soprattutto quando abbiamo la fortuna di avere in palestra Menone e Massimo dobbiamo comportarci alla stessa maniera di Socrate: non possiamo sprecare il software di chi ci sta davanti riempendolo dei nostri dati pre-organizzati.
Certo anche se è evidente che non sia il buon Dio ad infonderci la conoscenza della battuta float (e le predisposizioni genetiche aiutano, ma non esauriscono la competenza), Massimo sa già molte cose. La prima cosa è che sa di non sapere. Sa che ha sbagliato tante battute ma possiede la struttura grammaticale per elaborare il gesto della battuta. Massimo sa anche che non è in possesso di una buona tecnica di battuta, ma, attraverso l’aiuto del coach, è consapevole di avere le possibilità di perseguire il suo obiettivo. Massimo soprattutto ha visto fare ottime battute float e le ha memorizzate. Ha memorizzato anche gli effetti positivi di una battuta float e sa che se la eseguirà bene saranno guai per gli avversari. Soprattutto Massimo vuole fare un’ottima battuta float.
Allora dobbiamo tiragli fuori quello che lui già sa. Dobbiamo farlo nella consapevolezza che lui si convinca di aver trovato la risposta e dobbiamo fare in modo di confermargli la bontà di questa risposta.
Una vecchia regola degli allenatori ci dice che si parte dal semplice e si arriva al complesso. Allora è evidente che dobbiamo seguire la progressione che ogni allenatore conosce: prima si fa battere la mano di Massimo sul muro, in modo che comprenda cosa sia l’impatto stoppato e rigido della mano sul pallone, poi si fa lo stesso esperimento con un pallone trattenuto nella mano e battuto sul muro, poi lo si mette a tre metri da un muro, si cura prima l’alzata della palla, poi l’impatto della mano rigida sulla palla e via di seguito a manetta con tutta la progressione tecnica.
La cosa importante è che tutto questo lo scopra Massimo e che Massimo sia il protagonista assoluto della sua conoscenza. L’importante non è saltare qualche passaggio, oppure tornare indietro. Lo scopo da non perdere di vista è quello di cercare di elaborare insieme a Massimo il percorso di apprendimento, quello più adatto a Massimo, quello che solo Massimo può trovare. Tutto questo è faticoso e rischioso. Quando giocherò la finale del mio campionato è possibile che Massimo sbaglierà la battuta sul 14 pari al tie break, però quando avrà imparato non dimenticherà mai e soprattutto non avrò fatto violenza all’atleta e all’uomo. A volte Massimo metterà a frutto tutto questo dopo un paio di campionati e magari lo farà quando mi giocherà contro senza essere consapevole di fare quello che io ho tentato di agevolare… pazienza, sono i rischi del mestiere!
Socrate non insegna a Menone cosa sia la battuta float, ma lo accompagna nel suo processo di apprendimento (verso la virtù) e lo aiuta a convincersi di quello che sta facendo.
Per l’atleta la differenza sta tra imparare ad eseguire buoni colpi o essere un atleta in grado di eseguire buoni colpi.
E’ poco importante se questo lo aiuterà a vincere il torneo del condominio o un’ Olimpiade, la differenza resta fondamentale.
Infine c è anche un altro aspetto da tenere in conto. Ho già scritto una volta di troppo di non aver problemi a pensare che sia pieno di allenatori che insegnano la battuta float meglio di me. La mia autostima si sta ribellando: questi allenatori esistono, ma come dice Socrate… non li ho ancora incontrati. Scherzi a parte di questi bravi allenatori ne ho battuti molti e molti atleti allenati da me erano più efficaci rispetto a quelli allenati da altri coach più quotati e sinceramente più bravi. Come è stato possibile? Come è possibile che io possa battere un allenatore obiettivamente più bravo di me? D’altra parte come è possibile sovvertire i valori sportivi portando a vincere quello che fino a ieri perdeva? Certo, molto dipende dal materiale umano che abbiamo a disposizione, però tutto si giustifica con il fatto che esisterà pure il modo migliore per insegnare la battuta float, ma non è detto che questo metodo sia in mano a qualsivoglia allenatore. Allora posso anche concedermi di pensare che se lascio liberi i miei ragazzi di imparare, potrebbero imparare meglio di quanto possa insegnare loro il miglior allenatore del globo e quindi potrei anche arrivare a sconfiggere senza troppi meriti squadre allenate da allenatori più bravi.
Credo che un buon coach debba essere rispettoso dei percorsi individuali. Mentre scrivo sto allenando Alessandra, una ragazza under 16 dalle potenzialità enormi, ma che ha appena iniziato a giocare. Ha difficoltà proprio sulla battuta float, mentre è già molto brava a muro e in attacco. Ieri in allenamento, dopo settimane di lavoro sulla float piedi a terra, ha voluto emulare una compagna ed ha eseguito una jump float senza alcuna preparazione da parte mia. Perfetta! Ne ha provata un’altra: perfetta anche questa. Come allenatore mi sono sentito frustrato, ma come uomo sono stato felice che la mia ragazza abbia trovato da sola la strada, compiendo personalmente quell’ultimo passo verso l’esecuzione di una discreta battuta.
Uno dei tennisti più forti che io abbia mai visto giocare era Bjorn Borg, eppure un qualsiasi maestro di una scuola di tennis sarebbe inorridito dinanzi alla sua tecnica e al suo rovescio a due mani. Forse, se Borg invece di Socrate avesse avuto per maestro un bravo filosofo tradizionale, oggi starebbe affumicando baccalà in qualche porto del nord Europa. Invece da bambino o ha fatto da solo (non sono appassionato della sua biografia), oppure semplicemente ha trovato un maestro rispettoso della sua grammatica universale e della conseguente capacità di creare un linguaggio tennistico a lui adatto.
