Il genitore prima causa di infortunio (Platone e la battuta float)

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Il primo sabotatore potenziale di un atleta è l’atleta stesso, seguito, con il fiato sul collo, dai genitori. In questa speciale classifica sono distanziati e di molto: fidanzati e fidanzate, professori di educazione fisica, allenatori, nonni, cattive amicizie. Distorsioni, stiramenti, infiammazioni sono molto inferiori di numero e sono molto meno gravi degli incidenti prodotti dai genitori. Il danno che procura un genitore ad un atleta resta l’infortunio più diffuso nel mondo dello sport!
Per semplificare il discorso pensiamo al rapporto del genitore con il coach. Un genitore giudica un allenatore su un unico criterio: fa giocare mia figlia o la tiene in panchina. Un Velasco nel primo caso, un brocco nel secondo. La prima domanda che fa un genitore ad una figlia di rientro da una partita è: avete vinto? La seconda: hai giocato? Nel caso di due risposte positive va tutto bene. La combinazione di due risposte negative non è la peggiore. Il combinato peggiore resta: abbiamo vinto, io non ho giocato.
Non ditemi che non è vero! La mia casistica ormai è sterminata.
Credo che questo fatto, nello specifico dello sport, confermi la teoria generale.
Adler per spiegare il danno che un genitore provoca alla crescita del figlio utilizza il concetto di bambino viziato.  Il concetto non è esattamente quello che intendiamo quando nella vita di tutti i giorni parliamo di bambino viziato. Tanto per capirci un bambino può essere viziato anche se educato in maniera molto dura. Cosa intendiamo allora nello sport quando parliamo di bambino viziato? Lo sportivo cresciuto come un bambino viziato avrà la sensazione che ogni suo bisogno sarà soddisfatto da papà e mamma o comunque che per risolvere un problema sportivo si debba ricorrere a elementi esterni che non siano il duro lavoro in palestra e con la squadra. Il pargolo viziato si adatterà creandosi uno stile di vita inadatto al soddisfacimento della propria volontà di potenza. Il genitore distruggerà la dinamica di crescita del ragazzo e tra l’altro ci priverà della gioia di veder giocare un campione di pallavolo. Il ragazzo probabilmente crollerà alla prima difficoltà, sarà un professionista negli alibi e presto mollerà sport e squadre.
Sono convinto che ogni genitore se potesse comprendere il danno che per amore provoca al figlio peserebbe con una bilancia di precisione ogni suo intervento. Far del bene al proprio figlio è molto più semplice che prendersela con il coach che lo lascia in panchina. Come fare?
Immaginiamo due punti su una retta. Il punto A e il punto B. A è il punto in cui si trova il ragazzo, B è il punto in cui deve arrivare. B rappresenta un obiettivo tecnico (saper schiacciare o ricevere), il posto in squadra, la semplice soddisfazione personale. A è non so fare una buona ricezione, B è una buona ricezione. Per prima cosa il ragazzo deve prendere coscienza che A non è B e che per raggiungere B si deve fare qualcosa. Se B è il posto da titolare e pensiamo che per raggiungerlo si debba esonerare l’allenatore o mandare mamma a spiegare le proprie ragioni stiamo cercando una soluzione esterna che non produce nessuna modifica interiore nell’atleta. Il punto è proprio nel fatto che il ragazzo deve trovare la benzina per arrivare da A a B e la deve trovare dentro di sé. Se b è ricevere bene e qualcuno suggerisce all’atleta l’alibi che in quella palestra non c’è una buona illuminazione, b non sarà mai raggiunto. Bisogna che il ragazzo sperimenti il sentimento di inferiorità Il sentimento di inferiorità è una cosa positiva e significa soltanto io sono A e non B . Ammetto che l’espressione di Adler suona male e nello sport potremmo sostituirla con il concetto di distanza tra quello che sono e i miei obiettivi. In ogni caso dobbiamo essere consapevoli che se vissuto correttamente questo sentimento ci sarà di aiuto, altrimenti si trasformerà in un complesso di inferiorità: non sarò mai b! Che fare allora per preservare i nostri campioncini?
Quasi sempre la risposta migliore é non fare molto, lasciando il ragazzo prendere coscienza della situazione, rimuovendo i suoi alibi e favorendo la socializzazione tra squadra e singolo.
In altri termini, il ragazzo dovrà trovare in se stesso quella che Adler chiama volontà di potenza. Quella che nello sport possiamo chiamare motivazione. Per essere motivati a superare un limite gli atleti debbono per prima cosa individuare il limite e in questo gli alibi forniti con grande generosità dai genitori non servono. (continua)

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