La squadra e il gruppo (da Platone a Velasco)

Ultimamente è di tendenza la distinzione tra squadra e gruppo. Gli influencer più accreditati sono, neanche a farlo apposta, due grandi coach nati nel mondo della pallavolo: Velasco con un video molto cliccato e Montali, con un articolo di grande interesse. La tesi comune ai due coach è abbastanza semplice:

un team non deve essere necessariamente anche un gruppo. Per raggiungere i risultati è fondamentale che i componenti di una organizzazione siano e facciano squadra.

Ogni sportivo intuisce la differenza: far gruppo significa uscire insieme, andare a mangiare una pizza, parlare delle proprie vite. Non è detto, dice Velasco, che un gruppo del genere sia vincente.

Ha ragione: una volta ho allenato un gruppo con il quale si stava benissimo in palestra, ma abbiamo perso quasi tutte le partite.

Montali, da par suo, racconta di aver cambiato l’approccio di un imprenditore il quale per anni ha sperperato risorse nel tentativo di costruire un gruppo all’interno della propria azienda. Cene, vacanze, esperienze di survival… tutto il repertorio di iniziative per creare un gruppo… tutto senza un risultato concreto. Quando però il gruppo è stato trasformato in squadra le cose sono andate alla grande e Montali, per Natale, ha ricevuto un bel regalo dall’imprenditore, felice di aver risparmiato il denaro utilizzato in precedenza nel tentativo di creare esperienze di gruppo con i propri dipendenti.

Cosa significa essere squadra per Velasco e Montali?

I due sembrano essere d’accordo, far squadra consiste in due cose:

  • lottare insieme verso un obiettivo,
  • rispettare i ruoli assegnati dal leader (il coach, il dirigente, il magazziniere, il capitano…).

Anche su questo Montali e Velasco hanno gioco facile, ogni allenatore almeno una volta nella vita si è rivolto alla propria squadra dicendo: non mi interessa se siate o no amici, voglio che in campo lottiate tutti per la stessa maglia e facciate quello che per cui siete qui. Ogni calciatore almeno una volta nella vita avrà pensato: non andrei a prendere neanche un caffè con il mio centravanti, ma segna due gol a partita e gioca per la squadra, a me sta bene così.

Velasco, in particolare, insiste molto sul rispetto dei ruoli: se chiamo uno in squadra per fare la riserva non deve rompere le scatole perché vuole essere titolare. Se dico ad uno che deve fare il difensore non può mettersi a fare il centravanti. Se guardo bambini piccoli che corrono dietro al pallone noto subito che non si sono dati dei ruoli: non giocano a calcio e non sono una squadra.

Una grande squadra è un team nel quale ognuno ha chiaro l’obiettivo e conosce bene quale sia il suo ruolo nel raggiungerlo.

Velasco ha studiato filosofia. Sicuramente ha letto la Repubblica di Platone, la prima grande idea di squadra che ci ha consegnato l’antichità. Per il filosofo greco i cittadini sono divisi in tre classi:

  1. Governanti;

  2. Guardiani;

  3. Lavoratori

Un coach potrebbe parlare di attaccanti, centrocampisti e difensori, titolari e riserve, dirigenti, impiegati, operai. Ciascuna classe ha un compito, i propri confini, spazi di vita e di azione.

Platone ci consegna una buona idea di squadra.

La polis, la squadra di Platone, funziona se ogni classe gioca nel suo ruolo nel rispetto di una specifica competenza o virtù. I governanti devono governare perché posseggono la sapienza; i guardiani combattono perché hanno coraggio….

La squadra funziona se c’è ordine e armonia tra le varie parti. Fin qui tutto bene.

C’è da chiedersi quale sia la vision a cui saranno chiamati i cittadini della Repubblica. Quale idea condivisa li porterà a fare squadra? Platone è un filosofo e quando ha tentato di governare una città ha preso sonore batoste, Raffaello lo raffigura mentre indica il cielo. Platone pensa che una società possa funzionare se i cittadini pensano al bene comune, alla giustizia e all’armonia delle parti.

Ad un certo punto del dialogo un personaggio, Adimanto, chiede a Socrate come il guardiano possa trovare la felicità, preso com’è dai suoi doveri e privato del comfort che oggi definiremo borghese (famiglia, successo, amore…).

Socrate risponde che la felicità per il guardiano consiste proprio nell’assolvere al suo dovere. La polis non è fondata perché un solo gruppo in particolare sia felice, ma perché lo sia la città tutta intera.

La squadra non serve a far felice il difensore o il portiere di riserva, ma a vincere le partite!

Se ci si preoccupasse solo del benessere di alcune persone, nessuno farebbe più il suo lavoro e la polis verrebbe distrutta.

Nei termini propri del coaching potremmo dire che la scelta di motivare in maniera piena solo alcuni, o la squadra come un tutto, è una questione decisiva. E se la felicità o il buon funzionamento della polis come squadra è la vision della Repubblica, allora ciascuno deve giocare nel ruolo che gli è stato assegnato e partecipare della felicità nella misura in cui glielo concede l’appartenenza ad una determinata classe.

Il centravanti titolare della nostra squadra avrà una motivazione intrinseca perché avrà gratificazione nel giocare e segnare tanti gol. Il suo bene coincide con quello della squadra e soprattutto troverà piacere nello svolgere il suo compito. Nella scala delle motivazioni, la motivazione intrinseca, la gioia di fare una cosa per il gusto di farla è la più potente! Il portiere di riserva potrà essere sollecitato da motivazioni estrinseche: un buono stipendio, la prospettiva di giocare titolare il prossimo anno, la divisione del premio finale. Non troverà nessuna gioia propria nel guardare un altro che gioca o nel doversi allenare duramente al pari dei titolari. Il massimo della sua motivazione intrinseca sarà quello di partecipare al successo della squadra. Potrà dire: c’ero anch’io.

L’altro però dirà: ho parato un rigore! Secondo voi chi sarà più partecipe e motivato?

Il gruppo, al contrario, non ha le caratteristiche funzionali di una squadra: il rispetto dei ruoli (anche se un gruppo spontaneo assegna ruoli), la vision, l’amalgama, l’ordine, la disciplina e soprattutto la condivisione degli obiettivi. In un gruppo i membri che lo compongono stanno bene tra loro, si frequentano, sono contenti di partecipare alle varie attività sociali: ma insieme non hanno da assolvere a nessun compito. La partecipazione stessa ad una comunità è la motivazione di ciascun componente il gruppo. Ci sto perché e finchè ci sto bene. Poi, è vero, il gruppo può essere un’armata Brancaleone, incapace a far fronte a qualsiasi compito, proprio perché non è organizzato in funzione di un obiettivo condiviso. Il gruppo finisce quando finisce il piacere che ciascuno ha di essere gruppo e la simpatia tra i componenti.

Con queste premesse tutti gli allenatori preferirebbero avere una squadra piuttosto che un gruppo.

Ma…c’è un ma. Un però che andrebbe indicato quando si parla della differenza tra gruppo e squadra. Per esperienza mi sono convinto che proprio la questione che riguarda la felicità dei guardiani sia il neo fastidioso del discorso di Velasco e Montali (e anche di Platone).

Per vincere ci vuole una squadra, non c’è dubbio. Ma chi renderà felici i guardiani? Una squadra che non sia un gruppo, che non possegga, quindi, le caratteristiche empatiche tra i membri del team, prima o poi presenta il conto. Il portiere di riserva non si accontenterà più del suo stipendio, il magazziniere comincerà a brontolare sulle scelte dell’allenatore, l’operaio inizierà a sostenere di avere idee migliori del suo dirigente.

Una visione condivisa non è per sempre!

Parafrasando un altro slogan pubblicitario di successo potremmo gridare: toglietemi tutto ma non le mie motivazioni! Una squadra che non sia gruppo dura lo spazio dei propri obiettivi. Gli stessi obiettivi saranno perseguiti dai singoli per quello che potranno ricevere in cambio. Una squadra funziona alla grande, ma non sempre ha un’anima, nonostante le apparenze.

L’ottimo sarebbe avere una squadra che sia anche un gruppo. Questo è l’obiettivo di chi organizza un team.

Troppo spesso un coach sceglie di costruire squadre e non perde tempo a promuovere le dinamiche del gruppo. Ci sono dirigenti che fanno funzionare un team sull’inganno, le divisioni, le rivalità. Quel team potrà raggiungere i propri obiettivi di squadra, ma a quale prezzo?

D’altra parte un allenatore mediocre si accontenta di allenare un gruppo e non riesce a costruire una squadra. Non vincerà mai nulla, ma non avrà fatto violenze alle psicologie delle persone. Amo gli allenatori mediocri!

Personalmente sono caduto più spesso nell’errore di costruire squadre senza pensare al gruppo. Dovendo scegliere però tra i due mali, non avendo il compito di vincere le Olimpiadi, preferisco avere a che fare con gruppi che non siano squadre piuttosto che il contrario.

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