I Padroni della terra

Quanti sono 88 milioni di ettari di terra fertile? Tanti. Quasi tre volte la superficie dell’Italia, otto volte quella del Portogallo. Ebbene, tutta questa terra negli ultimi quattordici anni è stata sottratta ai legittimi proprietari, i popoli che la lavorano da sempre. Cosa potremmo pensare di un esercito che in soli quattordici anni avesse conquistato l’Italia, il Portogallo, la Francia e

land grabbing

qualche altro piccolo stato a piacere? Se questo esercito avesse poi ridotto in schiavitù gli abitanti di questi paesi ed utilizzasse le loro terre in pieno diritto penseremo che nessuna grande potenza colonialista sia mai riuscita a tanto. Eppure questo esercito esiste ed ha fatto tutto questo senza neanche sparare un colpo.

Come lo ha fatto?

Hai mai sentito parlare di Land grabbing?

Si tratta di accaparramento di terre su vasta scala, legalizzato, anzi favorito, dai governi locali.

La cosa è semplice e funziona bene, del resto bisogna aiutarli a casa loro. Dopo aver spostato le fabbriche dove si può comprare il lavoro a poco prezzo qualcuno un giorno ha avuto una brillante idea: per un tozzo di pane compro l’uso di intere regioni del pianeta.

Tutto apparentemente legale. Una grossa azienda multinazionale corrompe qualche politico, versa nelle casse dello Stato un po’ di denaro e si prende i diritti di enormi appezzamenti di terra. Decenni di politiche liberiste hanno spianato il campo a legislazioni che favoriscono l’investimento del privato sul bene pubblico. Che poi il privato abbia un fatturato dieci volte superiore al PIL dello Stato con cui tratta il prezzo della terra è una storia a parte. Fondo monetario, Banca mondiale e gli altri organismi internazionali che controllano il pianeta hanno ridotto sul lastrico paesi forse un po’ scrocconi, ma peggio di qualsiasi cravattaro li hanno messi nella condizione di vendere per quasi nulla le proprie terre e chi ci sta sopra.

Già, chi ci sta sopra ed ha sempre lavorato quel fazzoletto di terra in mezzo alla grande distesa sulla quale la multinazionale ha messo gli occhi passa da un’economia di sussistenza ad una vita da schiavo. Lavorare per gli altri la terra che gli apparteneva, farlo in cambio di una paga appena sufficiente a sfamarsi, è una possibilità, ma soltanto per i più fortunati. Servono pochi uomini per produrre grano, soia e mais. Macchine, pesticidi e concimi assolvono egregiamente il loro compito.

L’alternativa per chi non viene assunto dalla multinazionale della fame è trasferirsi in città, quelle comode metropoli africane, sudamericane e asiatiche dotate di tutti i confort per chi ci si sposta con il proprio fagotto di stracci e miseria. Ci sarebbe anche la possibilità di salire su un barcone, ma di questi tempi è finita la pacchia.

Certo in questo club di sfruttatori debbono sedersi dei veri e propri stati canaglia. Chi sono?

Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Olanda, vi sono quelli emergenti come la Cina, l’India ed il Brasile, ma lo sono anche paesi petroliferi come gli Emirati Arabi Uniti oppure la Malesia, Singapore ed il Liechtenstein, che spesso si prestano come piattaforme offshore ad operazioni finanziarie per le aziende multinazionali internazionali. Tale situazione è più evidente nel caso delle Bermuda, delle Isole Vergini, delle Mauritius, delle Isole Cayman, che offrono condizioni finanziarie e fiscali estremamente vantaggiose per attrarre i capitali degli operatori internazionali ed è qui che transitano flussi finanziari di Paesi terzi che vengono investiti anche in acquisti e affitti di terre nel mondo. Ad esempio, le Mauritius contano 13 contratti pari a 423 mila ettari di terra concentrati soprattutto in Mozambico e Zimbabwe.” (Primo Rapporto sul Land Grabbing, FOCSIV aprile 2018).

Anche l’Italia, sempre buona ultima tra i colonizzatori, ha cercato il suo posto al sole: le nostre imprese hanno investito in poco più di un milione di ettari, hanno stipulato trenta contratti in tredici stati, principalmente in Africa e in Romania. A noi piace consumare la terra degli altri per l’agroindustria e per produrre biocombustibili, mentre qui da noi sacrifichiamo praterie fertili alla TAV e alla crescita incontrollata di città e borgate ormai difficilmente gestibili, ma affamate. Da qualche parte dovremo pur produrlo il pane necessario.

Essendo ultimi e con qualche problema di liquidità non siamo soltanto protagonisti: siamo anche oggetto di Land grabbing, anzi, mi viene in mente che siamo più che altro protagonisti passivi del Sea grabbing. Ricordate il Referendum no triv? Ricordate il ciaone con il quale parte della sedicente sinistra ha salutato il mancato quorum? Ebbene: avevamo una possibilità, sottrarre l’uso del nostro mare alle multinazionali, almeno limitarne il potere. Così non è stato. Addio pesce azzurro sull’Adriatico! Non adesso, non subito, qualche griglia potremmo ancora pescarla, ma è passato il principio che una flotta di pescherecci, intere coste incantevoli, siano sacrificabili all’interesse di una multinazionale che munge dai nostri mari petrolio e gas. Pazienza se lo fa talmente vicino alla costa da poter raggiungere la piattaforma con il pedalò! E per fortuna che da noi è fortemente limitato il fracking, ossia la pratica di far esplodere il sottosuolo per trovare un goccio di petrolio, altrimenti oltre che la terra e il mare ci avrebbero sottratto anche la possibilità di starcene tranquilli sotto terra.

Il Land grabbing vive un momento di grande salute e non sembra proprio intenzionato ad essere abbandonato dai nuovi colonizzatori. La retorica dell’Africa incapace a sostenersi offre il supporto morale necessario agli investitori che poi debbono vendere i propri prodotti a chi può comprarli. Questo boom del land grabbing è dovuto ad un motivo molto semplice: la crisi finanziaria che dal 2007 ha reso poco produttivo l’ investimento di capitale laddove solitamente veniva investito. Il capitale finanziario si comporta come un liquido, prende la forma del vaso, penetra le più piccole fessure. La borsa non è più un terreno sicuro, meglio investire su qualcosa che non può venir meno: la fame.

Comprare terra e assicurarsi il monopolio della grande distribuzione di prodotti alimentari da rivendere anche a chi quei prodotti se li era sempre coltivati! La strategia è produrre al sud ciò che sarà mangiato al nord. Poi, visto che siamo buoni, manderemo al sud gli avanzi, uccidendo una seconda volta quelle economie rese ormai dipendenti dai nostri aiuti.

Ecco allora che quando si parla di poveri non lo si può fare con un pietoso senso di carità, tra l’altro ormai fuori moda. Si tratta di agire, organizzarsi, muovere coscienze, voti e politica su scala internazionale.

La gente, in Italia e nel mondo, non ha smesso di votare i partiti della sinistra perché è mancata un pizzico di attenzione ai “poveri”, come si sente dire in questi giorni. Nel silenzio più assordante si sono avviati processi perversi e difficilmente reversibili, che renderanno schiavi i più, poveri i molti e ricchissimi i pochi. Tutto in nome di una sostenibilità di modelli economici sposati dai grandi partiti tradizionali.

La risposta malata alla morsa di questi modelli perversi è sotto i nostri occhi… l’alternativa al male e alla cura populista è possibile, ma ci vuole tanto coraggio e tanta serietà nel proporre un nuovo paradigma economico che gradualmente restituisca ai popoli le loro responsabilità.

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