Hoffenheim TSG 1899 / device 4

In bilico, sulla sua poltroncina personalizzata, si infila con estrema cura i calzini dello sponsor. Li tira ben bene ad evitare ogni piega. Alza i piedi all’altezza degli occhi per poter controllare. Si sente tirare il quadricipite. Niente di grave, solo un attimo, ma la cosa lo preoccupa. Quel giorno, no. Deve essere in perfetta forma.

Wie geht’s dir? Come va, Tim? Gli urla il giovane coach passando davanti a lui. Il giovane coach non lo guarda e non vede la smorfia nel momento in cui il quadricipite destro si fa sentire.

Alla grande, coach, vedrà che roba! risponde il ragazzo. Ma il giovane coach è già lontano e non ha atteso la risposta.

Si concentra di nuovo sugli scarpini. Gialli con gli inserti blu, gli piacciono, pensa di essere fortunato. Li calza con cura. Si alza per controllare l’aderenza e poi stringe i lacci alla morte. Così si fa, gli avevano insegnato già da quando tirava calci ad un pallone di gomma, durante i due anni di avviamento allo sport. Dalle ragazzine, ammesse a giocare con i maschi nelle scuole di avviamento, aveva preso una certa maniacale attenzione al lato estetico del calcio.

Per terra, davanti a lui il libro di Kareem Abdul Jabbar, Coach Wooden and me. Se ne sta aperto sulla pagina in cui Abdul, la matricola più promettente di tutti gli Stati Uniti, entra alla corte del coach più vincente di tutti gli Stati Uniti. Quel giorno, che sarebbe stato memorabile per la storia del basket, si era esaurito in una lezione su come indossare i calzini. Tutto qui, coach Wooden?, aveva esclamato Jabbar.

Lo avessi avuto io un coach così, borbotta Tim, buttando un occhio al libro come se stesse seguendo una ricetta, mentre finisce di allacciarsi le scarpe gialle con gli inserti blu.

Jan Mayer se ne fotte dei calzini di Tim. Strano per uno psicologo. Il suo lavoro per la TSG 1899 Hoffenheim è centrato sull’allenamento cognitivo dei professionisti che giocano per la squadra tedesca. Tim è americano, lì non esiste un vero atleta che non devolva parte del suo stipendio ad uno strizzacervelli. A casa, sulla questione dei calzini ci avrebbe passato sei mesi con l’analista che lo segue da quando aveva sedici anni. Quando lo ha raccontato a Mayer quello ha fatto spallucce ed ha commentato, mettiti i calzini che vuoi, come vuoi. Non è importante.

Tim finalmente è pronto, segue il lungo corridoio del centro sportivo, la vetrata dà sul campo di allenamento. Il Coach impartisce gli ordini. La squadra esegue esercizi tattici, si muove eseguendo una grande coreografia sul tappeto verde. Ridono e sudano. Tim si ferma, le mani poggiate sul vetro. Riconosce gli atleti uno ad uno, quello più alto è Andrej, il centravanti. Un colosso, ma si muove con eleganza. L’ Hoffenheim ha appena dichiarato di aver rifiutato trentacinque milioni da una squadra che lo voleva in Italia.

Quello che ha appena tirato in porta è Nico, il mancino. Grande personalità. Laggiù ecco che dalla foschia spunta Kevin, il capitano. Sempre il primo ad entrare in campo, scherza con un ragazzo, appena aggregato alla rosa della prima squadra, Tim non ne ricorda il nome.

Che intenzioni hai? Gli urla dal fondo del corridoio l’assistente di Mayer?

Tim scuote la testa, si specchia nella vetrata. E’ tutto in ordine, lo sponsor ben in evidenza con il logo che spicca sulla maglia rossa a bordi bianchi, gli scarpini puliti e lucidi. Tim, si sistema i capelli rossi, li raccoglie dietro la testa e con le mani agili si acchitta un codino, reso appena possibile dalla lunghezza del taglio.

Il ragazzo raggiunge la stanza di Mayer, il grande schermo che avvolge lo spazio di gioco è già acceso, la formazione avversaria è in campo. I suoi compagni compaiono ora e corrono sullo schermo.

Ti sei scaldato bene, Tim? Gli chiede Mayer dal microfono della sua cabina in plexiglass. E’ strano sentire la sua voce in stereofonia al posto del sottofondo che riproduce i cori da stadio, i mormorii, le imprecazioni dei tifosi.

Certo, coac… la parola coach gli si strozza in gola. Ok, doctor!

Un ragazzo delle giovanili lo assiste al suo ingresso sul tappeto verde, lo accompagna al centro del suo cerchio bianco e gli consegna il pallone. Nello schermo già si svolge frenetica l’azione, ecco che in fondo compare un compagno libero, Tim calcia e la palla raggiunge Kevin, il capitano. Ora un avversario gli si avvicina in pressing, Tim non vede compagni, un altro avversario affonda una takle da dietro, ma Tim è svelto e allunga la palla al suo compagno che intanto è comparso in un angolo dello schermo, pronto a ricevere il pallone. Era proprio Nico, che si invola sull’out sinistro e lo ringrazia del passaggio preciso. Gli effetti sonori incoraggiano il rosso americano, che non sente la fatica e dispensa palloni a destra e a sinistra con una precisione chirurgica.

L’arbitro fischia la fine del primo tempo. In alto sul grande display Tim legge lo score, mentre si cambia la maglia sudata e beve un sorso dalla bottiglia che il ragazzo delle giovanili si affretta a passargli. Trentacinque passaggi, di cui trenta utili e cinque sbagliati. Tre tiri in porta, un gol. Uno ad uno con il Bayern non è male, commenta Tim, prendendo poco sul serio tutti quei numeri.

Ti avessi avuto in campo domenica avremmo vinto, gli dice il giovane coach che entra nella grande stanza proprio in quel momento.

Grazie coach, gli risponde Tim che è già pronto a giocare il secondo tempo. Il giovane coach si accomoda nel box in plexiglass di Mayer, lo psicologo.

Ascolta, Tim, gli dice il giovane coach dal microfono. Lo stadio è tutto per lui e il coach gli sta parlando davanti a trentamila spettatori ammutoliti. Beh, pensa Tim, l’effetto stereofonico è quello. Nel secondo tempo lavoreremo sulla visione periferica. Ti piomberanno addosso degli avversari e tu dovrai essere bravo, appena li vedi, a passare la palla ad un compagno che comparirà dall’altra parte dello schermo. Devi lavorare su tutti i centottanta gradi della tua visuale e cambiare il gioco. Sempre dalla parte opposta al pressing. Centottanta gradi, ricorda bene. Valuteremo i tuoi tempi di reazione allo stimolo visivo e la precisione del passaggio.

Anche duecento, duecento gradi. Precisa Mayer.

Tim si passa le mani nei capelli. E’ la prima volta che il coach segue un tempo intero delle sue esercitazioni. Di solito si accontenta dei report di Mayer. Sente l’emozione salirgli in bocca, il sapore è quello del sangue.

Sono pronto, coach.

Il gioco inizia, ma senza rumori di fondo.

Tim tiene palla e un avversario lo affronta da sinistra, un tocco di troppo e la luce rossa segnala che il ragazzo ha perso la palla. Non ha visto il suo compagno smarcato lì in fondo allo schermo, sulla destra. Ascolta i commenti di Mayer che ha lasciato il microfono aperto.

Altra azione, stessa dinamica, ma Tim ha capito, sposta la palla a sinistra e lancia lungo su Andrej che stoppa di petto e tira in porta. Il portiere la mette in angolo.

Bravo Tim, gli urla il coach dal box in plexiglass. Arriva un pallone e poi un altro. Tim ha capito ed infila ogni passaggio con tempismo e precisione.

Sicuro che non posso portarlo in campo? Chiede il coach a Mayer.

Tim è concentrato, ha capito come funziona il gioco, si è tolto l’elastico e i suoi capelli volano liberi. Passaggi precisi che raggiungono i suoi compagni. Tocchi laterali. Persino un sombrero su un avversario che gli sbuca chissà da dove. Sul serio il coach vuole portarlo in squadra?

No, coach. Abbiamo fatto nuove analisi. La malattia progredisce nonostante le cure. Un taglio più profondo potrebbe ucciderlo. Persino una lesione muscolare può essere fatale. Ho paura anche ad utilizzarlo nei test.

Le lacrime scendono sugli occhi di Tim, il passaggio ha il tempo giusto, ma la palla vola lontana. Troppo lontana dall’ala sinistra pronta a ricevere. Il passaggio si perde sul fondo dello schermo.

Il ragazzo delle giovanili corre verso il box. Intanto esce un altro pallone, Tim se lo fa soffiare da un cazzo di avatar del Bayern. Il ragazzo gesticola concitato. Mayer si butta sulla console e spegne il microfono. Il giovane coach si toglie la giacca di rappresentanza, si avvicina a Tim e gli dice che basta, per oggi può bastare.

Tim scuote la testa e si scrolla di dosso la giacca che il giovane coach gli aveva poggiato sulle spalle. Siamo soltanto a metà del secondo tempo e vuole vincere questa partita di merda, così dice rivolto a Mayer.

Sarà tutto finto, ma non per lui. Non dopo quello che ha ascoltato. Il giovane coach gli dà una pacca sulla spalla e dice qualcosa al ragazzo delle giovanili. Fa un cenno con il pollice alzato a Mayer, che è rimasto dentro la box di plexiglass a controllare gli strumenti.

Si riprende. Ora ci sono i rumori del pubblico e i palloni filano via lisci. Tim ha ricominciato a dispensare passaggi a destra e a sinistra. Sembra avere gli occhi dietro la testa, là, proprio dove prima c’era il codino. Evita gli avversari un attimo prima che quelli si avventino sul pallone. Siamo al 44’, finalmente Kevin taglia dentro l’area, Tim, evita un avversario con una veronica e lo serve profondo sulla corsa. Kevin vede il portiere, scava un cucchiaio e la mette dentro. L’arbitro fischia la fine. Hoffenheim 2 Bayern 1. Il ragazzo delle giovanili corre in mezzo al grande salone dello schermo, dietro a lui tutta la squadra, quella vera, non gli avatar. Il giovane coach, che non era rientrato nel box di plexiglass, abbraccia i suoi ragazzi, al centro c’è Tim. Il ragazzo americano li guarda uno ad uno per più tempo possibile. Il giovane appena entrato in squadra gli sorride. Indossa la maglia da allenamento numero 16, il numero rimasto libero, quello che Tim sognava. Si abbracciano.

Andrej, il capitano, gli chiede se vuole essere della comitiva. Questa sera si festeggia, non capita tutti i giorni di battere il Bayern. Tim sente male al quadricipite, fa una grande sforzo per non darlo a vedere. Ha la bocca impastata di saliva, con il sapore del sangue.

Ringrazia tutti. Grazie ancora. Certo che ci sarà. Non capita tutti i giorni di battere il Bayern.

La TSG 1899 Hoffenheim è una squadra che milita nella Bundesliga da una decina d’anni. Il suo allenatore è veramente giovane, il dottor Mayer esiste ed è a capo di un progetto innovativo che fa largo uso della tecnologia nell’allenamento cognitivo dei calciatori professionisti. Tutto il resto, ovviamente, è fantasia.

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