Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero asfalto, non c’è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano cosi. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentono arrivare nell’aria la frustata.
I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una citta delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina.
La città in se stessa, bisogna riconoscerlo, è brutta. D’aspetto tranquillo, occorre qualche tempo per accorgersi di quello che la fa diversa da tante altre città mercantili, sotto tutte le latitudini.
Chissà se riuscirò a tenermelo stretto questo corso di scrittura creativa, pensava il professore. Che poi non era un professore. Lui era un filosofo. Ma neanche un filosofo. Aveva studiato lì, aveva ottenuto anche il dottorato se è per questo. Ma insomma, era un Naif, e le lamentele degli studenti per quel suo modo di insegnare cominciavano a farsi strada.
Poi scoppiò l’epidemia e il suo modo di insegnare, molto fisico, non riusciva più ad esprimersi. Non sarà un’epidemia a togliermi di mezzo. Intanto ticchettava sulla tastiera gli ultimi ripensamenti. Le ultime considerazioni. Ci teneva alla lezione, anche se questo strumento gli limitava l’espressività teatrale. Il teatro fa parte del gioco, si disse quando era iniziata questa storia.
Insomma se ne stava nel mondo dei suoi pensieri quando si illumina l’avviso di Zoom che gli ricorda che è l’ora della lezione. Il professore vede comparire uno ad uno i suoi studenti. Ma su, in alto, a destra, riconosce il Decano di filosofia, subito sotto, in attesa del video, si preannuncia il Rettore. Non si può iniziare senza il Rettore, dice il Decano. Che ci fanno questi due nella mia classe.
Mi sa che questa volta se perdi stai fuori, si disse in tutta risposta. Per campare aveva allenato squadre di calcio. Sapeva riconoscere bene la partita dell’ultima spiaggia. Ma intanto tutti se ne stavano in silenzio. Al massimo si faceva strada qualche timido buonasera professore e qualche ciao.
Può essere tesa l’aria di una lezione virtuale? Pareva di sì. Tutti aspettavano il Rettore. Giusto il tempo di preparare l’ultima diapositiva, si disse il professore. Ma dove è finita? Eccola.
Era la metà di agosto e Myers era sospeso tra una vita e l’altra. L’unica differenza, rispetto alle altre volte, era che questa volta non beveva. Aveva passato ventotto giorni in un centro di disintossicazione. Ma proprio in questo periodo a sua moglie era saltato il ticchio di mettersi insieme ad un altro ubriacone, un loro amico. Myers aveva telefonato alla moglie, ma lei gli aveva attaccato il telefono in faccia. Non gli voleva neanche parlare, figuriamoci lasciarlo avvicinare a casa.
Me ne fotto del Rettore, disse fra sé. Però iniziò senza Rettore e tutti pensarono, se ne fotte questo del Rettore. Anche il Decano pensò, ma che storia è questa? Se ne fotte del Rettore.
Tre incipit ragazzi. Tre semplici incipit. Li riconoscete? Già sul primo quella nidiata di conformisti educata a Pascoli e Manzoni esitò un attimo. Chi è? Chi è, chiese il professore. Chi è? Disse ancora. Anzi no, non disse. Urlò. Ma che fa, urla? Pensò il Decano. Ci vuole poco a digitare su Google. Un tizio, un seminarista americano fu il primo. Samarago, Cecità, disse alzando la manina digitale.
S A R A M A G O, scandì il professore. E’ stato il t9 rispose quello. Eh, sì, perché il T9 conosce una parola che si chiama Samarago. Il secon…? E si alza subito la manina. Una giovane siciliana, era tornata a Siracusa per la quarantena, una tipa brillante. Camus, la peste! Il professore pensò di essersi innamorato di quella ragazza. Ma pensò, non è che mi sono innamorato, però mi piacerebbe essermi innamorato di questa ragazza di Siracusa.
Il terzo? Eh, già sul terzo non c’è Google che tenga. Intanto do il benvenuto al Rettore. Benvenuto Rettore, disse il decano accendendo il suo riquadro virtuale.
Il terzo? Mi vado a fare un caffè mentre ci pensate? Risatine imbarazzate. Lo faceva apposta. Lo faceva apposta a dire fesserie quando c’era il Rettore, ma non poteva farci nulla. Il colpo di teatro lo aveva preparato. Non era il caso di rinunciare. Fa parte del gioco, il teatro. Si disse. Si alzò, scomparve dallo schermo, che intanto inquadrava il suo letto disfatto e dopo una trentina di secondi tornò con un caffè fumante. Caffè Borbone, disse. A Report lo hanno stroncato, ma a me piace. Che volete farci? Insomma il terzo è Carver. Il Racconto si chiama Legna da ardere e fa parte di una raccolta postuma, Se hai bisogno chiama. L’ha curata Tess Gallagher, la poetessa compagna dell’ultima parte della sua vita. Comprendete che questi tre incipit descrivono situazioni simili a quella che stiamo vivendo. I primi due rappresentano la normalità di una vita, un attimo prima che stia per succedere qualcosa di tragico. Nel primo Saramago parla di un semaforo. La cosa più normale del mondo in un momento più normale ed insignificante possibile. Linguaggio quasi futurista, ma stiamo per cadere nel medioevo. Bel contrasto. Il lettore è preparato. Dice: vabbè, ora cosa sta per succedere? Però se lo chiede perché un libro non può andare avanti a parlare di semafori. Saramago non ci prepara a niente nel suo incipit. Ci fa stare tranquilli. Al massimo uno pensa, accipicchia come scrive bene questo.
Il secondo è esplicito. I singolari eventi… anche qui si parte da una situazione normale, città bruttina, ordinaria… ma si annunciano da subito eventi straordinari.
Il terzo, beh, il terzo è il mio preferito. Siamo al dopo e al prima. Un tale, un ubriacone, esce dalla propria reclusione in un centro di recupero per alcolizzati e si ritrova beh… non ritrova esattamente la mogliettina ad accoglierlo a braccia aperte… le risatine nervose interrompono la lezione. Perché non disattivano i microfoni? Pensò il professore. Perché non disattivate i microfoni, dice il Decano. Visto che voi non leggete Carver, perché nessuno vi ha insegnato ad apprezzare la vita per quella che è, beh vi annuncio che poi questo Myers si reclude nuovamente. Prende una stanza in affitto e vive alcuni giorni di assoluto isolamento in questa casa dove vivono due coniugi. Si descrivono i suoi gesti quotidiani e qualche raro scambio di parole con i due tipi che gli hanno affittato la stanza. Il lettore pensa: adesso cosa succede? Invece non succede niente. Poi un giorno Myers decide di tagliare la legna che era stata scaricata in giardino, saluta e se ne va. Punto.
Quindi professore, fece il Rettore spazientito? Quindi? Si chiese il Decano.
Beh, quindi… quindi… non ho finito. Voglio raccontarvi un ultimo incipit. Quello della Cappella Sistina. L’incipit della settimana santa. Ieri è stata la Domenica delle palme. Il diluvio universale. Qui Michelangelo si comporta come Carver, in un affresco tratteggia il prima e il poi. Ci sono tre gruppi di uomini che fuggono dal diluvio. Ci sono i giusti, quelli che se ne stanno all’asciutto dentro l’arca, in fondo. Abbiamo i malvagi, quelli che tentano un assalto all’arca. Infine ci sono le figure in primo piano. Strazianti. Espressive al massimo. Non sono malvagi, ma non trovano posto nell’arca perché attaccati ai loro beni. Guardate quel tavolino rovesciato che galleggia. Alcuni tentano di salire sugli alberi, altri portano le persone care sulle spalle. Guardate, guardate l’isola: troverete un anziano genitore che a fatica porta in braccio il corpo quasi esanime del figlio. Sanno che moriranno, ma tentano di guadagnarsi un’ultima mezz’ora di vita. Ma, no. Non è finita. In fondo, piccolo, piccolo, Noè già accoglie la colomba con il suo ramoscello di pace. Mentre le figure degli uomini persi sono prese a lottare, sono tese, disperate, Noè ha già finito la sua reclusione e si affaccia dalla finestra. Non si dice nulla di quello che succede nell’Arca, ma si vede il prima e il poi. Tutto insieme.
Quindi professore? Fece il Rettore. Già, quindi? Disse il Decano.
Quindi, fece il professore, nel mondo di twitter, dei 140 caratteri, Carver e Michelangelo sono i più grandi. Nel loro incipit c’è già tutto. Uno sguardo, due minuti di lettura ed ho tutte le carte in mano. Tocca a me giocare, dice il lettore. Da domani leggerò i vostri incipit ragazzi. Gli incipit sul racconto della vostra pandemia. Vi do mille caratteri. Altri mille li utilizzerete per un canovaccio schematico del vostro racconto. Ma tutto, dico tutto il resto, deve essere contenuto nel vostro incipit.
Uno ad uno si spengono le icone dei ragazzi. In fondo gli voglio bene, pensa il professore. Per ultimo scompare il bel volto della ragazza di Siracusa. Restano il Rettore e il Decano.
Beh, professore, nel suo incipit non era chiaro che da oggi lei è licenziato. Fece il Rettore.
Già, licenziato disse il decano.
