Gli scatoloni erano pronti. Non avevo altro da fare e me ne stavo a guardare fuori dalla finestra. Prima o poi sarebbe arrivato il furgone dei trasporti. Avevo lasciato fuori la macchina del caffè, carica. Se ne stava lì, carica, sul gas, aperto, ma spento. C’erano anche una confezione di bicchierini di carta, tre o quattro cucchiaini e la scatola di caffè Eridania. Quasi vuota. Casomai i ragazzi avessero voluto un sorso di caffè caldo ci avrei messo due minuti a servirlo.
Sono al quarto trasloco in tre anni. So come vanno queste. Meglio far lavorare bene i ragazzi. Un buon caffè aiuta ad avere un clima sereno. Perché lavorare guardandosi di traverso? No, dico: è meglio starsene sereni e fare le cose per bene. Un caffè a volte aiuta.
Comunque sto lì e aspetto. Lo so che quando arriveranno i ragazzi si farà tutto in fretta e non ci sarà tempo per un’ultima ispezione.
Il proprietario di casa non potrà venire. Mi ha chiesto di lasciare le chiavi sul tavolo e chiudere la porta. Non è mai andata così. Se dimentico qualcosa non potrò rientrare a prenderla. Prima di uscire e chiudermi la porta alle spalle con le chiavi lasciate sul tavolo decido di fare un ultimo giro per le stanze. Sono certo che dimenticherò qualcosa.
Non si vede ancora nessuno.
Allora mi viene in mente di controllare se il pacchetto che ho messo nella tasca del giaccone è a posto.
Lo prendo con cura. Lo guardo. Sembra integro. Meglio controllare. Strappo lo scotch che tiene insieme la plastica con le bollicine, sfoglio con cura la carta velina.
Sì, è tutto a posto.
Quando devo muovermi la prima cosa che faccio è incartare con cura l’occhio.
Non lo metto nelle scatole, neanche in quella con su scritto, fragile, maneggiare con cura.
Non si sa mai. Magari i ragazzi sono nervosi e sbattono la scatola. Può succedere un incidente. Non rischio certo.
Ci tengo all’occhio. Lo porto con me da quando l’ho trovato. Avrò avuto dieci o dodici anni.
Ce ne stavamo a giocare a pallone al prato. Ora ci sono sopra palazzi di otto o nove piani se consideriamo anche le soffitte. Allora no. C’era questo immenso prato. Proprio alle spalle di via Ostiense. Uscendo da Roma, dopo la Piramide. Prima di San Paolo. Adesso c’è il ponte Spizzichino. Prima c’era un prato.
Insomma, ce ne stiamo a giocare a pallone un pomeriggio intero. Eravamo sfiniti. Mario, il mio amico di allora, mi dice. Ci sono troppi sassi in questo campo. Togliamone un po’. Lo disse perché la sua squadra stava perdendo trentadue a otto. Insomma, dopo quattro ore che giochi e perdi trentadue a otto ti attacchi a tutto. Fatto sta che ci mettiamo a togliere i sassi dal campo. Ci dicevano di non alzare le pietre grandi perché sotto c’erano le vipere. Sì, allora le vipere le trovavi anche in città. Ma io alzavo le pietre proprio per quello. Non avevo mai visto una vipera.
Mi ero stancato di raccogliere sassi. Allora vedo una bella pietra grossa. Non gigantesca, ma più grande delle altre. Prendo un bastone e faccio leva. Volevo vedere una vipera, ma insomma anche a dieci o dodici anni non ero proprio così scemo da alzare la pietra con le mani. Alzo il sasso e come sempre non trovo la vipera. Faccio spallucce. Questa storia della vipera mi pare strana. Comunque sposto il grande sasso, ma non vi ma di fare lo sforzo di portarlo fuori dal campo.
Ero stanco anche io, mica soltanto Mario. Chi vince si stanca meno, ma si stanca.
Mi metto a smuovere la terra e vedo un po’ di pezzi bianchi. Non erano sassi. Erano frammenti di qualcosa. Vabbè, questo lo dico oggi. Allora mi sembravano cose strane. Comincio ad osservare questi pezzi di qualcosa. Scavo con il bastone che mi era servito a spostare la pietra. Non cercavo nulla di preciso. Però mi sembravano strani quei pezzi bianchi sotto al sasso. Scava qui, scava lì esce fuori questo pezzo più grosso degli altri. Era sporco, ma si vedeva che era lavorato. Non era una cosa naturale. Ci sputo sopra e comincio a pulirlo con le mani. Poi me lo strofino sui pantaloni. Tanto erano pantaloni che, si sa, mamma avrebbe messo in lavatrice. Per fortuna le mamme non lavavano più a mano. Buttavano tutto in lavatrice e tu potevi sporcarti senza prendercele.
Insomma, sputa e strofina esce fuori quest’occhio. Non un occhio a grandezza naturale. Più grande. Bello, perfetto. Lavorato nei dettagli. Bello. Come lo definirei? Bello, semplicemente bello.
Oh, ecco i ragazzi. Volete un caffè?
No, lo abbiamo appena preso al bar. Fa il capo. Un omone gigantesco, non proprio un ragazzo. Tanto che indossa un camice blu. Oggi chi è che fa un lavoro del genere con un camice blu?
Ok. Dico io. Se ci ripensate basta accendere il gas. La macchinetta è del proprietario di casa. Resta qui.
Va bene, grazie. Sono solo questi gli scatoloni? Mi chiede l’uomo con il camice blu. Ci metteremo pochi minuti allora.
Ah, ecco il mio occhio. Mentre loro lavorano me lo guardo. E’ bello. L’ho sempre portato con me. Ogni volta che sono triste o che le cose non vanno come devono andare lo prendo in mano, lo pulisco un po’ dalla polvere e lo guardo. Una volta l’ho fatto vedere ad un professore di archeologia.
Dove lo hai trovato mi dice?
Ho fatto il vago. Comunque è di età imperiale, mi fa lui. Non vale molto, ma dovresti consegnarlo alla sovrintendenza e spiegare bene dove lo hai trovato.
Ah, sì lo farò. Grazie.
Col cavolo che l’ho fatto!
Poi un giorno mi sono trasferito a Firenze per lavoro. Ho fatto vedere l’occhio ad una ragazza di cui mi ero innamorato. Ero proprio innamorato per farle vedere l ‘occhio!
E’ stupendo, disse lei. Mi sembra di averlo già visto.
Ci rimasi male, non so se ci lasciammo per questo. Il mio occhio è un tesoro prezioso, non ce ne sono di così belli in giro.
Non puoi averlo visto! Le urlai.
Da quel giorno le cose cominciarono ad andare male tra noi e alla fine ci lasciammo.
Quando l’ho lasciata mi sono sentito triste. Allora me ne sono andato a guardare un sacco di cose belle a Palazzo Pitti. E’ lì, proprio dentro la Galleria Platina che ho visto una delle cose più belle. La Venere italica. Una storia divertente, Napoleone porta in Francia la Venere de’ Medici e Canova dice, vabbè ne faccio una più bella. E fa la Venere italica. Boh, così almeno mi hanno raccontato. Non lo so se è andata proprio così. Mi pare strano.
Dotto’, abbiamo finito. Quasi quasi ci facciamo questo caffè, mi fa il tipo con il grembiule blu.
Ci penso io ragazzi. Un attimo che esce. Riposatevi.
Insomma questa Venere italica ha due occhi che possono competere con il mio. Non sono proprio uguali, ma si somigliano. Sono belli.
Ecco. Sì, è Illy, si sente la differenza. Un gran caffè. Ok, se state a posto possiamo andare. Chiudo e lascio le chiavi dentro.
Fu così che persi il mio occhio. Lo lasciai sul tavolo e il proprietario di casa lo gettò nel cassonetto.
