Sarei stato uno stupido a non considerare la cosa!

Quel giorno, il giorno della cosa che ti sto raccontando, ero andato a Roma a cercarmi un lavoro. Avevo un appuntamento con il redattore di Paese Sera. Si risolse in un’altra perdita di tempo. Se avessi voluto gli avrei potuto mandare qualche articolo per la pagina culturale, poi avrebbe visto se riusciva a farmelo pubblicare. Ma non mi prometteva niente, il giornale da mesi non pagava i collaboratori, figurarsi un freelance!  Mi sa che se non ci avesse presentato Giorgio, un suo amico d’infanzia, mi avrebbe detto francamente di lasciar perdere.

Tornai subito alla stazione Termini, senza andare a zonzo per Roma. Dal periodo dell’Università avevo imparato che un pendolare, almeno sulla linea Roma-Cassino,  chiede un miracolo almeno due volte al giorno: trovare un posto seduto all’andata e al ritorno. Quel giorno, il giorno in cui mi è successa questa cosa,  ho avuto fortuna e ho trovato un bel sedile libero proprio sulle carrozze di coda. Gli ultimi vagoni sono i più comodi per chi scende a Zagarolo: ti trovi subito davanti al parcheggio! Spesso il posto libero è sporco, quasi sempre il vagone puzza. Quella volta il sedile era quasi pulito ed il vagone non era infestato da cattivi odori.  A dirla tutta il vagone era vuoto, non era riscaldato e visto che faceva molto freddo quasi tutti hanno preferito viaggiare accalcati nelle altre carrozze, in piedi ma caldi. Tanto poi a Zagarolo scendono in molti e quelli che proseguono per Cassino possono trovare facilmente un posto a sedere.  Quello che importa in questa storia è che ho trovato posto e ho pensato che sarebbe stato bello concedermi un po’ di tempo per leggere. Ho pensato questo e niente altro. Sarebbe stato bello leggere, anche perché, visto che non riesco a scrivere niente che sia apprezzato dagli altri, è meglio continuare a leggere. Non ho pensato a cosa, era proprio il fatto di leggere che mi interessava.  Nella borsa avevo Repubblica con l’inserto del Venerdì, un giallo di Simenon, che danno con un piccolo sovrapprezzo sul quotidiano, e un’ antologia di articoli che hanno fruttato il Pulitzer ai loro autori. Era decisamente troppo poco il tempo del viaggio per iniziare un articolo da Pulitzer. Di Simenon ne ho le tasche piene e non so perché ho comprato il libro. Insomma, comincio a leggere Repubblica e qui inizia il bello. In prima pagina c’era la cronaca di tutta quella storia su Bertolaso, una roba di prostitute che sarebbero state utilizzate per estorcere favori ad un uomo così potente. A me Bertolaso sembra una persona per bene. Non è che lo conosca. Dico da cittadino. Eppure in una intercettazione pare che il capo della Protezione Civile avrebbe detto di voler dare volentieri una “ripassata” ad una tal Francesca, una massaggiatrice che lavora in un club gestito dall’imprenditore. Non ci credo. Soprattutto non credo al fatto che uno come Bertolaso si esprima in questi termini. “Una ripassata”, ma figuriamoci!  In altre circostanze avrei approfondito, ma quel giorno ne avevo le tasche piene. E’ un periodo che ho le tasche piene di tutto, lo ammetto. Così prendo a sfogliare il quotidiano, giusto il tempo di passare a gran velocità la stazione di Ciampino. Credo pure che ogni tanto abbia chiuso gli occhi, non è che abbia dormito, certo che divagavo. Insomma: leggevo un titolo e mi guardavo intorno. Vicino a me due ragazze avevano sfidato il freddo e si erano messe sedute. Il resto del vagone era ancora vuoto e loro avevano deciso di mettersi proprio vicino a me. La cosa non mi aveva disturbato. Tanto non mi andava di leggere e non avevo bisogno di starmene tranquillo. Cominciarono a parlare tra loro. Una delle due era italiana, l’altra chiaramente straniera. Dall’accento mi sembrava rumena. Cominciarono a parlare della loro estetista. Ci hai mai fatto caso? E’ difficile trovare una rumena ed una italiana che parlano tra loro. Ma le due ragazze dovevano essere amiche. Mica parli dell’estetista con un’ estranea. Insomma, la ragazza rumena, alta e slanciata, aveva il problema delle ciglia folte. Però a guardarla non mi sembrava le avesse così folte come diceva. L’altra era cicciottella ed era avvolta da un poncho nero, sembrava un omone dell’ottocento, anche perché aveva i capelli corti, scuri, con la riga e tratti mascolini. Ho pensato: altro che estetista, cara, ti ci vorrebbe un po’ di sport ed un tocco di femminilità. Mi sono anche vergognato di quello che stavo pensando. Ti dico questo per spiegarti che poi ho deciso di concentrarmi a leggere con attenzione qualcosa e non divagare troppo in pensieri che mi sembravano poco carini. La ragazza con il poncho ogni tanto mi guardava. Io pure la guardavo. Aveva delle grosse mani, con delle dita cicciotte, ma ben curate. Lei non era proprio grassa, certo robusta. Però le mani erano grassottelle. Non riuscivo a leggere perché cominciai a farmi domande sulla ragazza cicciottella. Chissà che lavoro facesse, come avrà conosciuto la rumena? Me la presi con me stesso perché invece di leggere avevo cominciato a farmi domande sulla ragazza cicciottella. Dobbiamo pur avere il controllo di quello che pensiamo, o no? In fondo questa cosa della distrazione è il mio problema. Non riesco a scrivere niente di buono da un po’ anche perchè vado a spasso con la fantasia. Alcuni scrittori sfruttano le loro fantasie, a me dopo che ho divagato non resta niente. Fatto sta che decido di leggere qualcosa e di concentrarmi su quello che leggo. Alla fine scelgo di leggere quella rubrichetta che Michele Serra scrive ogni giorno. Il box che Repubblica riserva a Serra si chiama “L’amaca” e mi immagino che Serra, almeno d’estate, la scriva dal suo poderetto nell’Appennino tosco-emiliano, proprio dondolandosi su un’amaca. D’inverno magari scrive mentre accarezza il gatto e fuori nevica. Insomma poche righe scritte in tutta comodità, alle quali si accosta bene l’immagine di un’ amaca. Ricordo precisamente che mi immaginavo Serra tranquillo, tranquillo che si guadagnava da vivere scrivendo trenta righe al giorno, quando fui infastidito da un ragazzo con i capelli rossi e spettinati che apre la porta del passaggio tra un vagone e l’altro e si mette a sedere proprio accanto a me. Il fatto è che il ragazzo aveva puntato la cicciottella e la rumena,  le aveva salutate come si saluta qualcuno che si conosce un po’ alla lontana ed era sprofondato sul sedile rimasto libero vicino a noi. Insomma il vagone era vuoto e noi quattro eravamo stretti. Pensai di alzarmi e spostarmi in un posto più comodo, ma mi sembrò scortese. Il nuovo arrivato era accompagnato da un odore poco piacevole. Mi concentrai su Serra: è facile fare l’intellettuale di sinistra sulla collina emiliana, vieni a scrivere “l’amaca” su questo treno! La cicciottella ogni tanto mi guardava e mi sorrideva, certo che le sue dita erano sproporzionatamente grasse. Pensavo questo quando ripresi a leggere l’Amaca. Finisco in pochi secondi. Quello che avevo letto mi aveva proprio innervosito. Ripiego il giornale con cura e mentre passiamo la stazione di Tor Vergata, me ne esco con una imprecazione: “porca puttana!” Mi pare che abbia detto qualcosa del genere.  Non è che l’ho pensato. L’ho proprio detto. Non è mia abitudine fare una cosa del genere. Il ragazzo dai capelli rossi mi guarda divertito, le due ragazze per un attimo smettono di scambiarsi opinioni sull’estetista. La cicciottella mi guarda e mi regala un sorriso storto, quasi un rimprovero bonario. La rumena non mi degna di uno sguardo. Riprendono i loro discorsi subito dopo, ma abbassano la voce.

Il punto è che quel giorno Serra parlava della canzone che il principe Emanuele Filiberto ha cantato a Sanremo. Non so se l’hai sentita. Una cosa terribile, almeno per me è una schifezza, pensa che mia madre l’ha pure votata per telefono. Ci ha sprecato un sms a tariffa maggiorata. Insomma, una schifezza per me, non per quelli che l’hanno votata, è ovvio. Quel giorno, proprio quel giorno, la mattina, prima di uscire, avevo scritto una cosa per Webmagazine su questa canzone. Due pagine fitte, fitte da mandare online: quattromila caratteri. Quelli di Webmagazine mi pubblicano tutto, tanto quando sono comodi mi pagano dieci euro ad articolo, ma guai a superare duemila caratteri!  Quella recensione su Sanremo non mi piaceva. L’avevo letta, riletta, non riuscivo a tagliare…ma proprio non c’era verso: non so se ti è mai capitata una cosa simile, i concetti erano giusti, il discorso filava, ma quello che avevo scritto proprio non riusciva a piacermi. Alla fine avevo mandato l’email alla redazione con uno di quei commenti stupidi: “se è troppo lungo tagliate voi”. L’hanno pubblicata integralmente, sul web la pagina è venuta uno schifo: la parte scritta prende tutto lo schermo  e sotto campeggia il banner di una impresa di onoranze funebri.

Ora il punto era un altro: quello sull’amaca nella collina emiliana, in poche righe, cinquecento battute al massimo, aveva scritto tutto quello che avrei scritto io, pure di più, senza sprecare una virgola. Tutto là, secco, efficace, martellante, essenziale. Ma “porca puttana maiala!” e questa volta sbatto pure il pugno sul bracciolo di plastica nera e consumata che divide i due sedili, sai quelli di stoffa blu che sono su questi treni, impossibili da smacchiare. Pure il ragazzo dai capelli rossi, questa volta, sembra imbarazzato e comincia a far finta di guardare fuori dal finestrino. Guardava fuori perché era imbarazzato dal mio comportamento: chi vuoi che cercasse mentre il treno sfilava veloce e superava anche la stazione di Colle Mattia. Ti ho già detto che è un anno che non riesco a scrivere qualcosa di serio? Quel raccontino che ho tirato fuori a Natale me lo avevano chiesto per quel giornale gratuito del tuo paese, l’ho pubblicato per far un favore ad un amico, ma mica mi piaceva tanto. Eppoi ho barato, l’ho solo ripreso da un racconto che avevo scritto da tempo. Dovrei cancellare dalla pennetta i racconti che ho già scritto. Finisco sempre per correggerli e rivenderli come nuovi. Vabbè, mi metto a pensare a come funzionava il mio articolo sul Principe e a quanto era perfetto quello di Serra. Non c’è un perché, ma i suoi cinquecento caratteri erano perfetti, i miei quattromila inconcludenti. Tu mi dirai: “se quello è ricco e scrive su Repubblica ci sarà un motivo, mica ti vorrai paragonare? Eppoi dove sta la storia che avevi voglia di raccontarmi?”

Aspetta un attimo perché è tutto legato. Quel giorno si è incastrato tutto, sembrava fatto apposta. Intanto devi capire che ci avviciniamo a Zagarolo e dovrei prepararmi per scendere, mi preparo sempre con un po’ di anticipo. Invece resto seduto, penso, ripenso e borbotto qualcosa. Non mi era mai capitato prima. Tu considera che le ragazze, quelle dell’estetista, ormai mi considerano un pazzo. Da cosa lo capisco? La cicciottella mi guarda con due occhi spalancati, notai che aveva occhi di un bel blu, non me ne ero accorto prima. Lei è bruna e scura, ma ha due occhi blu come il cielo. Poi quando finalmente mi alzo per prendere le mie cose…. beh, le tipe si spostano, quasi ad evitare che io le possa toccare. Soprattutto la rumena, si sposta quasi schifata. Si fa così con le persone strane, si evita persino di toccarle. La cicciottella, quella con il mantello, ha pure un paio di stivali, di quelli a punta stretta che non capisci dove finisca il piede, e per spostarsi finisce con l’infilare il tacco sullo stinco del ragazzo con i capelli rossi. Chissà che si saranno detti, perché hanno parlottato a voce bassa e al ragazzo le guance sono diventate tutte rosse. Chissà che storia c’è dietro. Ma io torno a pensare a Serra, torno a pensare al mio racconto di Natale e prendo una decisione all’istante. Smetto di scrivere. Basta. Al massimo qualche articolo di storia della filosofia, conosco la materia e non serve per forza una penna brillante. Oddio, se sei un esperto di filosofia e scrivi bene è meglio, ma non conosco mica tanti filosofi che scrivono così bene: l’importante è più quello che scrivi, non come lo scrivi. Sbarcherò il lunario facendo qualche altro mestiere. Decisi lì, in piedi mentre la rumena evitava di guardarmi, la cicciottella mi fissava e il ragazzo era diventato tutto rosso.  Basta con questa storia della scrittura e del giornalismo. Non è per me. Mentre me ne sto’ lì a pensare questa cosa, il treno frena e si ferma prima della stazione. Io perdo l’equilibrio e finisco in braccio alla cicciottella. La rumena scoppia a ridere. Chiedo scusa e, mentre mi divincolo dalla ragazza e dal suo poncho, mi suona il telefono. Non poteva esserci scena più ridicola. Era Giovanni, il direttore di Webmagazine, mi chiede “qualcosa di storia dell’arte” per chiudere il giornale cartaceo. No, quella roba sul Principe gli era piaciuta, poi oggi ne parlano tutti, non potevamo bucare la cosa, però il cartaceo sarebbe uscito tra dieci giorni… chi se lo sarebbe ricordato più Emanuele Filiberto a Sanremo?!?  Serve qualcosa di storia dell’arte, ‘che io sono tanto bravo a raccontare i quadri.

Ma come si fa, rispondo, a chiedere “qualcosa di storia dell’arte”? Che ti serve? Dico: cosa ti serve esattamente? Comunque gli dico che no, basta, non scrivo più. Lui insiste. Non mi va di spiegare e gli dico che non ho tempo, che da oggi faccio un altro lavoro e che non scrivo più.

Devi aver pazienza perché qui finalmente arriva il bello. Il treno è fermo e io finisco di parlare con il direttore di Webmagazine. La gente è già davanti alla porta d’uscita e io resto impalato davanti ai tre ragazzi. Ad un certo punto mi sento toccare. La cicciottella mi prende per il giaccone e mi fissa con i suoi occhioni blu, ma non parla subito. Saranno passati due o tre secondi. Poi mi dice che ha ascoltato la telefonata. Che proprio non poteva farne a meno, perché a dire il vero io strillavo, però lei mi legge sempre su Webmagazine , che aspetta anzi che io scriva qualcosa per poter leggere Webmagazine, che a dirla tutta quel portale non le piace e non le piace neanche l’edizione cartacea, però le mie cose le legge volentieri. Lei è l’amministratrice di una piccola casa editrice, Noi che ci guardiamo intorno (che nome ridicolo!), la conosco perché ho recensito qualche libretto che hanno pubblicato. Roba di cultura e tradizioni locali, niente di speciale. Lei mi dice che ora vogliono specializzarsi in racconti di viaggio. Io comincio a prendermela con il treno che non parte. Insomma: un minuto prima ero bello fiero dalla mia decisione di cambiare lavoro e ora mi trovo a parlare con una che mi parla di libri. Ma la cicciottella mi teneva per la giacca e non potevo muovermi senza essere troppo scortese. Già le ero caduto addosso dopo quelle scene a parlare da solo, ci mancava altro che la mollassi lì mentre mi raccontava la sua vita. Insomma questa casa editrice ha preso un finanziamento della Comunità europea, una storia di gemellaggi, ecco come si buttano i soldi. La rumena pareva annoiata ed aveva preso a fissarmi con odio. Dopo mezz’ora non aveva ancora finito di parlare dell’estetista e io avevo catturato la sua amica. Il ragazzo, invece, era concentrato sulle sue scarpe: erano di un tipo finto Superga, tutte consumate, con quel freddo non erano proprio adatte, ma il tipo le portava con disinvoltura e aveva preso a strappare i fili che si erano scuciti. Lo faceva come se fosse l’operazione più importante del mondo e da lui non potevo aspettarmi aiuto. La cicciottella mi conosceva tanto bene da farmi una proposta assurda. Io dico: “devo scendere, magari mandami una email”. Lei: “no, aspetta: stammi a sentire. Mettiti seduto”. Insomma, pareva una cosa importante. Il treno è ripartito e io ormai non potevo più scendere. Rimasi anche perché non avevo nulla da fare: non pensare che se avessi avuto qualcuno ad aspettarmi sarei rimasto sul treno ad ascoltare la cicciottella. Però ero lo stesso un po’ nervoso perché la tizia mi aveva fatto perdere la mia fermata. Adesso avrei dovuto aspettare un treno che mi riportasse indietro. Mi dice: “io non ti conoscevo prima di oggi, ma ho chiesto informazioni su di te perché mi piace quello che scrivi. Credo che tu sia la persona adatta per il nostro progetto: scegli un paese europeo gemellato con uno dei nostri, qualsiasi nel Lazio, ti paghiamo per sei mesi e tu te ne vai in giro per l’Europa a raccontarci perché si sono gemellati con noi, come vivono, qual è il loro santo patrono e tutte queste cazzate…”

Resto in silenzio. Lei mi guarda con quegli occhioni blu. Mi prende una mano con le sue dita sproporzionate e mi dice: “guarda che io ho il mio tornaconto: voglio viaggiare un po’, mi sono stancata del lavoro in ufficio. Vengo con te. Prendiamo un appartamentino dove vuoi tu, tutto spesato.”

L’avrei dovuta prendere a schiaffi. Ma se hai appena deciso di abbandonare il lavoro che ami e ti piove dal cielo un’occasione così importante, non dovresti considerare la cosa? Almeno come ipotesi, dico io.

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