
Ho atteso quattro anni: perchè in certi posti, dopo certi fatti o ci vai subito a dare una mano o non ci vai. Era un po’ che non leggevo notizie su L’Aquila, illusione e speranza che il suo cuore fosse tornato a pulsare. L’avvicinamento aveva cullato la speranza, cancellando l’illusione: dall’Altopiano delle Rocche, costeggiando una ciclabile forse realizzata con i soldi stanziati per il terremoto. Ci avevo corso quest’estate: avevo apprezzato il fondo di terrabattuta e brecciolino compatto. Neanche una spruzzata di cemento. Ho pensato che freddo, gelo, vento, incuria presto l’avrebbero cancellata. Invece è ancora lì. Passi per Campo Felice, c’é una bella galleria che ti porta sul versante un tempo inaccesibile agli abitanti dell’Altopiano: oggi ti si apre un mondo innevato e festante, fino a scollinare un passo ad oltre 1.600 metri, quest’estate vorrei farla in bici, ma non so come superare incolume la galleria.Bello, bello finchè non vedi in basso l’Aquila e tremi all’idea di riabbracciarla esanime. Ma speri. Si scende a Tornimparte e si prende l’autostrada fino a l’Aquila ovest: esci dal casello e tra Newtown, strade in manutenzione e trafffico pure a Pasquetta pare di essere in un cantiere. Meno male. Poi imbocchi via XX Settembre e senza che nessuno possa avvisarti ti trovi davanti alla Casa dello studente. Te ne accorgi perchè oggi è un pellegrinaggio, chi si segna con il gesto dei cristiani, chi fotografa, chi posa un fiore. Tu inchiodi con la macchina davanti alle macerie, alle colonne di cemento armato spezzate, inno alla vulnerabilità della nostra epoca. Nessuno dietro osa suonare, hai il tempo di piangere. Si svolta a destra per intercettare il viale che porta a Collemaggio. IL cuore palpita: lasci la macchina e tutto, proprio tutto sembra come prima. La gente si avvicina mesta e in silenzio, ma il prato è bello, la facciata intatta, semplice, con il suo ampio rosone che porta il mondo dentro la Chiesa. Varchi l’unica porticina disponibile, presagio evangelico, e dentro trovi colonne incartate, tiranti sapienti, puntelli che scaricano forze, sedie di plastica per una funzione che significa il ritorno al culto, e scorgi una luce lontana che non ricordi. Vedi l’abside, al suo posto, ma in mezzo un nulla fatto di sole e di speranza. Dappertutto segni di vita e di dignità. Esci contento, magari non proprio contento, sicuramente confortato. Ti dirigi sul Corso, insieme ad una processione di turisti, quasi tutti abruzzesi e romani. C’è gente dell’Aquila: li riconosci perchè non si guardano intorno e perchè non parlano. La spina dorsale dell’Aquila è fatta di archi che hanno resistito al sisma e legno, tanto legno, il legno che puntella ogni finestra, ogni soffitto, ogni cosa che sia rimasta con la schiena dritta. Il primo negozio che trovi aperto vende formaggi e prodotti tipici, è una sfida, non tanto al Corso, che sembra quasi una quinta di un teatro di posa, quanto alle piccole vie che si aprono a destra e sinistra, fatte di macerie, vetri rotti alle finestre, transenne. Cade qualche goccia e si afferma l’odore acre dei calcinacci bagnati, proprio dove avrei voluto trovare il sapore della rinascita. Le architravi si sono assestate e molti portoni restano aperti, una catena e un lucchetto sono a guardia del pudore che resta a vegliare una proprietà perduta. Si esce dal gregge a fine del Corso, si volta a sinistra, una mamma dice al bimbo troppo vivace: “qui andava a scuola mamma” e la sua voce non ha inflessioni, ne’ di rimpianto, ne’ di rabbia, ne’ tantomento di augurio: “tu adesso hai la scuola nuova”, risponde all’interrogativo muto del ragazzino che tira sassi contro il portone. Si viola una transenna, si scavalcano macerie, si ruba l’intimità di una casa che mostra mobili e maioliche di un bagno. Una Chiesa del trecento non sarà mai riaperta e si torna al teatro di posa. L’Aquila siamo noi.
