Binda, il mio compagno di banco

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E’ tempo suo, si dice quando fa freddo durante il periodo natalizio. Il primo anno del nuovo millennio, il trentun dicembre, il freddo fece il suo dovere. A dire il vero non faceva proprio freddo freddo, era freddino. Il tempo suo era rispettato più che altro da una più consistente umidità e soprattutto da una nebbia londinese che accompagnava una fastidiosissima pioggia, fina ed intermittente. Ricordo bene che quel 31 dicembre non smise mai di piovere, che quel 31 dicembre c’era la nebbia, e che quel 31 dicembre faceva abbastanza freddo. Quel 31 dicembre era uno di quei giorni da tirare a lungo sotto le coperte.

Alle otto mi chiama Massimo, con lui ho appuntamento alle nove per una corsetta: dal Convento di San Silvestro fino alla fattoria biologica del Parco Educa e Produce. Una corsa intorno ai 700 metri di quota, su un percorso sterrato e accidentato, per di più reso infido dalla pioggia.

Il fatto è che Massimo scrive in cronaca per L’Unità e i giornalisti il 31 dicembre non lavorano. Ecco perché ci siamo dati appuntamento il 31 dicembre. Massimo è stato mio compagno di banco al liceo e ottimo interprete di quel gioco che noi chiamavamo Papera, un calcetto più sfigato, che già il calcetto è la copia sfigata del calcio.

Sfigata o no la Papera aveva conservato, presso il liceo Socrate, una sua tradizione goliardica e persino un suo gergo, ormai certamente dimenticato, che se il Preside del Socrate fosse attento alle tradizioni inviterebbe Massimo per parlarne ai ragazzi.

La palla, ad esempio, si chiamava Bergia o qualcosa del genere. I motivi del nome sono tramandati soltanto dalla tradizione orale, per evitare che si perdano del tutto li scrivo. Pare che un gruppo di ragazzotti, in uno di quei torridi pomeriggi pre-estivi, pre-quadri, pre-incazzature per riparazioni settembrine, post-incazzature per questioni di femmine, nel pieno delle incazzature calcistiche, insomma in uno di quei momenti deprimenti alla Ecce Bombo, abbiano deciso di ammazzare il tempo utilizzando come campo da calcio il rettangolo canonicamente adibito al basket. Erano anni in cui ci si ammazzava per il colore delle bandiere, ammazzare il tempo con la papera sembrò un’ottima idea, che al Socrate, anche in seguito, risparmiò diverse esistenze da guai peggiori.

Comunque, le tasche liceali sono sempre al verde, oppure, semplicemente era un giovedì e i negozi sono chiusi, o semplicemente nessuno ha portato il Super Santos da casa. I padri del nostro gioco trovarono una papera di plastica, la quale, ignara della sua prossima quanto gloriosa sorte di progenitrice dell’unica tradizione degna di nota del Liceo Socrate, razzolava, forse abbandonata, nella vicinanze. Di qui il nome dello sport nazionale del liceo Socrate e della palla, chissa perché battezzata Bergia dai padri.

Con Massimo, nella squadra della nostra classe, formavamo una strana coppia, lui tutto tecnica e fantasia io tutto muscoli e tigna.

Naturalmente le nostre anime, così diverse, a volte venivano a cozzare frontalmente. Come dice Velasco: la marmellata è buona e pure gli spaghetti, ma non provateli a mettere insieme. Velasco l’allenatore argentino di pallavolo, è uno tosto che ha anche scritto per Micromega, se lo tiro in ballo dovete rifletterci su sta cosa della marmellata e degli spaghetti. Comunque Velasco è una persona di ovvia intelligenza. Massimo, invece possiede una intelligenza cristallina e pindarica, poco avvezza, almeno in gioventù, al rigore dello studio metodico. Ci siamo persi di vista per alcuni anni, con Massimo dico, l’amico dell’intelligenza pindarica, non con Velasco, quello dell’ovvia intelligenza e di Micromega. Ora che ci siamo ritrovati, correre insieme qualche chilometro è un buon pretesto per stare insieme un po’ e parlare del liceo, della Papera, delle compagne di classe.

Io sono più avanti e preparo la maratona, ma lui negli anni è diventato tosto, ha imparato a soffrire e prima o poi arriverà a correre più forte di me. Io ora corro quasi aggraziato, tutti e due in fondo siamo diventati il contrario di quello che eravamo da ragazzi.

Torniamo al telefono, la sua voce è impastata, forse viene dal letto. Speranzoso di farla franca mi chiede notizie sul tempo. Vieni tranquillo, è nuvolo ma praticabile. Che cazzo di risposta! Sono disonesto: il notiziario meteorologico è stato sillabato da sotto una calda coltre di coperte, al buio assoluto della mia stanza, senza alcuna possibilità di osservare fuori dalla finestra.

Non è stata una vera e propria bugia, qualche ora prima ero stato svegliato dal rumore di qualche stronzo che ha percorso la strada di casa mia, che è una salita come lo Stelvio, con un’apetta smarmittata, al cospetto della quale si tirerebbe un sacrosanto colpo alla nuca chi ha inventato quegli stupidi standar Euro più numeri a casaccio.

Ormai irreparabilmente sveglio, mi ero alzato, preparato il caffè ed avevo anche sbirciato fuori dalla finestra. Giuro che alle sei non pioveva. Poi, intirizzito, avevo vissuto uno dei migliori momenti della vita di un uomo sposato. Reinfilarsi furtivo sotto le coperte e farsi scaldare in un tenero abbraccio dalla moglie mezzo addormetata. A volte le mogli si incazzano per questo e tirano fendenti micidiali, le più miti al volto, le più smaliziate e cattive ai genitali. Quella volta Anna Rita non si accorse del mio abbraccio freddo e mortale, nel senso che ero freddo come un cadavere d’obitorio, e così, stretto nel suo caldo, sopravvissi alle intemperie della mia camera da letto.

Massimo arrivò sul luogo dell’appuntamento quasi puntuale, abitudine dell’età adulta, quella della puntualità, visto che al liceo il monte ore complessivo dei suoi ritardi aveva assunto dimensioni vicine a quelle dell’Everest. In quei gloriosi anni, di papere e coppe dei campioni, avevamo preso l’abitudine di convocarlo almeno mezz’ora prima delle nostre reali intenzioni di incontro. Non si accorse mai del tranello, tranne, forse, quella volta che inopinatamente arrivò puntuale, all’alba, un giorno che, guarda caso, ci saremmo incontrati per andare a correre una campestre. Non é che all’epoca ci piacesse correre, ma la campestre era un pretesto nobile e del tutto legale per far sega a scuola. Erano le sette di mattina e quel giorno il mio compagno di banco scontò molti dei suoi ritardi, patendo un freddo che spaccava l’anima ed anche qualcos’altro di meno nobile. La sua faccia sconsolata e auto commiserevole di allora mi è venuta in mente nel rivederlo il 31 dicembre presso il convento di S. Silvestro. A questo punto non poteva tirarsi indietro. Era vestito più o meno come Edoardo che esce dal letto sulla scena di Natale in Casa Cupiello. Imposi che si togliesse almeno un paio di strati della lana con la quale si era saggiamente ricoperto. Orlando Pizzolato, il mio Guru, obbliga i runners che non vogliono sentirsi tapascioni a correre leggeri, con qualsiasi temperatura. In genere questo consiglio si rivela essere una balla insidiosa e la gente si ammala per averlo seguito. Mi sa che quando fa molto freddo bisognerebbe starsene a casa.
Massimo ormai aveva tratto il dado (ma non esisteva modo migliore per tradurre questa cazzo di espressione?) ed era in balia della mia guida e dei miei gratuiti consigli. Si parte. A stento si vedeva dove mettevamo i piedi. Al primo bivio, quello della forcella, dove i cacciatori di frodo aspettano le beccacce al passo, ricordai che il mio compagno nutriva verso i cani un sentimento che definirei prossimo alla fifa blu e che quindi il sentiero che costeggia la sosta abusiva di un gregge di pecore era da sconsigliare, visto che saremmo stati sicuramente attaccati dai non miti cani pastori, notoriamente poco disposti a compromessi con giornalisti de l’Unità.
Decidemmo di scendere a valle, verso Molara. Il fango appesantiva le scarpe e il buon amico cominciava a nutrire dubbi sulla mia salute mentale.

Per fortuna non si accorse di una carogna di pecora a valle del nostro sentiero. Il suo morale non ne avrebbe tratto giovamento. Si corre per fare quattro chiacchiere, si dice. Invece ascoltavamo solo il nostro affanno, in fila indiana, con gli occhi bassi. Un ruzzolone nel fango ghiacciato non è il miglior modo di finire l’anno. A proposito, il 2001 era il primo o il secondo anno del millennio? Comunque non un anno di quelli anonimi, come il 1995 o il 2002, il 2001 aveva i numeri per essere un anno cazzuto. Non poteva finire nel fango.

Dopo una ventina di minuti, già questi quasi epici, la strada ci è sbarrata da due cani inferociti. Anche io che con i cani mi trovo a mio agio, forse, qualcuno afferma, perché in me vedono uno di loro, avrei avuto qualche problema, ma dato il colore blu della fifa di cui sopra, optammo per una ulteriore deviazione. Circa quindici minuti di strada infame, tutti in ripida e per noi poco rapida discesa.

Poi finalmente asfalto.

Purtroppo la nebbia e il discorrere, ravvivato dalla ritrovata civiltà del percorso, mi fa perdere il bivio giusto. Massimo manco ci pensa alla strada, si fida. Fa male. A questo punto è passata quasi un’ora e le forze del mio compagno di banco sono allo stremo. Qui che l’uomo diventa eroe, oppure, semplicemente tignoso. Il ragazzo, un tempo tutta tecnica e poco cuore, è diventato un ometto coraggioso. La strada del ritorno è ancora sorvegliata dai due canacci che ci guardano con gli occhi di uno stopper uruguagio di terza categoria. La deviazione prevede ora un supplemento di salita. La nebbia è scesa anche a valle. Mi giro e vedo il mio amico che sale del suo passo, sembra il gregario di Pantani sul Pordoi, mentre, però, gli altri già attaccano il Sella. Allento l’andatura e dispenso frasi del cazzo, del tipo: accorcia il passo, guarda avanti, sono gli ultimi metri di salita. Invece si sale ancora: ariecco la percora morta, ‘che ai Castelli la pecora è la percora, dico a Massimo che stavolta l’ha vista. La vista annebbiata e la nebbia che ci fa perdere di vista non permettono al mio amico di comunicare con me per qualche minuto. Rallento un po’ per cortese amicizia, ma soprattutto perché sono stremato pure io. Finalmente lo sento ansimare alle mie spalle, mi giro e la sua figura emerge dalla nebbia. Ma non c’era la discesa? Si, all’andata, faccio lo spiritoso.
Arriviamo dopo aver superato la sua soglia di dolore da una quarantina di minuti.
Tornati alle macchine Massimo non parla, si toglie i pochi indumenti che gli avevo consentito. Si cambia alla meno peggio. Non è più il mio compagno di banco: ha la faccia di Binda in un antico filmato che lo riprende sporco e stravolto.
Per venire ho pure discusso con mia moglie, sai : il cenone, gli invitati, la spesa…mi dice con un tono di rimprovero.
Già, la spesa, tocca anche a me. Baci ed auguri. Torno a casa mentre Massimo, accosta vicino all’edicola, ferma la macchina, e in infradito, con pantaloncini corti da allenamento, sfida la nebbia e gli sguardi dei paesani per andare a comprare il suo giornale, con i suoi articoli, gli ultimi dell’anno. Non capisco perché spenda soldi per leggere quello che ha scritto, ma non capisco tante cose, non perdo tempo a ragionare su questa.

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