La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo.
Todorov
Il professor Huber entrò nell’aula magna con il suo solito caracollare sbadato e trasandato. I suoi vestiti erano ancora più sciatti della sua andatura. Il suo culo pesante e tondo appariva sodo e ben disegnato sotto i pantaloni di tela celeste. Il tono muscolare del vecchio Huber era un mistero. C’è chi giurava di averlo visto darci dentro con i pesi, altri lo avevano visto correre di notte. E’ costituzione dicevano in molti.
Comunque spostò con agilità i suoi cento chili massicci al centro della lunga cattedra delle conferenze. Aveva un sorriso stampato in volto, chi non avesse mai sostenuto un esame di letteratura ipotetica lo avrebbe persino trovato simpatico.
I suoi studenti no.
Che si ride? Disse un ragazzo in fondo. Nessuno lo aveva mai visto ridere così. Ridere sì, certo. Era un tipo allegro. A modo suo. Ma quel ghigno…non poteva dirsi ridere.
E’ trasfigurato disse una tipa secca e pallida.
Sì, “trasfigurato” era l’espressione esatta. Però non è che tutti stessero lì ad assistere alla presunta trasfigurazione. La maggior parte dei ragazzi era impegnata ad aver paura. Era dal 2028 che nessuno usciva dai suoi interrogatori con un voto più alto di ventuno/trentesimi. L’ultimo che riuscì a spuntare quel riconoscimento, Marco Sinibaldi, già era professore associato da un paio di lustri e lo seguiva a distanza, nel suo incedere goffo al centro della cattedra. Ecco, Sinibaldi non aveva mai sottoposto il proprio corpo al minimo esercizio fisico. Faticava anche a sbadigliare.
Su Sinibaldi girano strane voci. Il tipo ha un quoziente intellettivo inferiore alla decenza. Eppure, fu il più giovane professore della prestigiosa Università teologica statale. E’ il figlio segreto di Huber, dicono alcuni.
Cavi stutenti, esordì il professor Huber, oggi è giorno particolare e felice per nostra Università e per me. Il nostro corso di letteratura ipotetica vi ha sempre condotto a scrivere come avrebbero scritto granti autori di passato. Il vostro ultimo esame è stato scrivere racconto come avrebbe scritto Franz Kafka.
Vi comunico che siete stati tutti bocciati, perché non avete scritto nulla compatibile con scrittura di Franz Kafka.
Purtroppo aggiungo che non avete scritto nulla di compatibile con letteratura perché non avete capito nulla di Franz Kafka. Se non capisci Kafka non puoi scrivere e neanche leggere. Evitentemente responsabilità di questo disastro è mia. Per cui oggi, dopo cinquantasette anni di insegnamento, abbantono questa facoltà e mando affanculo un Regime che ha ucciso la capacità di scrifere dei giofani. Giofani hanno sempre scritto. Oggi scrivono cazzate perché pensano cazzate.
Disse proprio così, che mandava a fanculo il regime. Ma quale? Quello dell’Università? Quello proprio Regime, Regime dello Stato? Ce l’aveva con il Consiglio teologico dei politici? O con il Consiglio politico dei teologi?
Giofani non sanno più scrifere perché non sanno più vifere…. aggiunse.
Clap….clap… clap
Gli applausi partirono prima dall’alto, nell’angolo a destra dell’emiciclo, poi piano piano si diffusero, si propagarono come si propaga la luce nelle liturgia del fuoco, di candela in candela, poi si trasformarono in una palla di neve che scendendo giù per la valle diventa valanga, alla fine l’aula si unì in un grande fragoroso applauso di liberazione.
I ragazzi si interrogavano increduli. Ognuno si consultava con il vicino. Ma allora siamo promossi? Dicevano alcuni. Ma con quale regime ce l’ha? Dicevano altri.
Sinibaldi che fa?
Comunque sì, avevano capito bene. Finalmente il professor Huber avrebbe portato le sue grosse chiappe teutoniche lontano da quell’istituzione. Finalmente si sarebbe potuto sostenere un esame in letteratura ipotetica senza ricorrere ad ansiolitici.
Poi i rappresentanti degli studenti davanti al Consiglio di facoltà e all’Ispettore alla cultura della Polizia religiosa avrebbero sostenuto che le ultime frasi sul regime erano state ignorate dai più. Comunque l’applauso era scaturito prima.
Era un applauso di liberazione per le dimissioni di Huber. Questa spiegazione era convincente. Sinibaldi disse di non aver sentito l’applauso. Comunque lui non aveva applaudito. La parola Regime? No, lui era distratto dai preparativi tecnici della lezione. Non aveva sentito Huber parlare di Regime. Figurarsi un uomo della sua levatura non avrebbe mai parlato di Regime. Disse Sinibaldi.
La realtà fu diversa. L’applauso fu interrotto da Huber che, con un gesto da direttore d’orchestra, aveva richiamato al silenzio i musicisti. I ragazzi ammutolirono. Il professor Huber, aiutato proprio da Sinibaldi, per quanto gli fosse possibile aiutare un uomo sopra il quintale, era salito in piedi sulla cattedra, rispondeva agli studenti con gesta di vittoria e improvvisò una specie di ballo.
E’ impazzito. Non che prima fosse normale. Ora è decisamente impazzito. Disse la ragazza secca e pallida.
Cavi ragazzi sono felice di non vedervi mai più. Sono stufo di vostri compiti orribili e stupidi. Però oggi vi faccio regalo, ultimo. La letteratura ipotetica oggi è archeologia. Oggi vi faccio federe ultima intervista a Franz kafka. Unica copia esistente è in mio possesso. Nessuno conosceva fino oggi qvuesto filmato. Si voi fate silenzio e ascoltate, si professor Sinibaldi interroga voi e voi dimostrate aver compreso senso di qvuesta intervista, io promuovo tutti voi con trenta prima di andare via. Per anni il Regime mi ha impedito di mostrare filmato a stutenti. Il risultato è che non capite nulla di Franz kafka.
L’aula si trasformò in una strana chiesa al momento in cui si eleva il calice, nessuno osava guardare dritto verso il professore, i più audaci si interrogavano sommessamente, si chiedevano se avessero capito. Quelli dei primi banchi, quelli che arrivavano in ritardo ed erano costretti ad occupare le posizioni più pericolose, non potevano voltarsi e da dietro quasi si poteva intuire il tremito dei corpi. I corpi tremavano di freddo e di paura dentro i goffi vestiti monacali, imposti dal regime.
Irruppero le guardie. Nessuno ha mai saputo confermare se fossero state richiamate da qualche zelante studente. Qualcuno disse che era stato Sinibaldi. No, troppo stupido per essere un infame, dissero altri. Comunque le guardie non ebbero tempo di far nulla. Huber aveva studiato tutto. Si spense la luce. Si accese il proiettore e sullo schermo comparve un’immagine tremolante e sfocata.
Due uomini in piedi, rigidi e impacciati, vestiti alla moda del tempo, si stringevano la mano. Sullo sfondo un viale alberato in autunno. Una moto che sfrecciò dietro ai due rivelò chiaramente, se ce ne fosse stato bisogno, che si trattava di una intervista ipotetica.
Il terrore pervase di nuovo il corpo degli studenti. Stai battendo i denti, disse la ragazza secca e pallida al suo vicino. Forse era tutta una farsa e Huber li avrebbe presto interrogati. Quelli dei primi banchi cominciarono a prendere appunti. Come facessero al buio nessuno lo sa.
I due personaggi del filmato si sedettero su una panchina. Uno, il più alto era molto ossequioso e dopo i convenevoli iniziò a far domande.
Franz Kafka, parliamo delle sue radici e del rapporto con il suo lavoro: lei è nato a Vienna, vive a Praga, ma, specie in questo ultimo periodo, sembra sentirsi maggiormente legato alla Palestina, la Terra Promessa. L’arte, intendo la sua letteratura, ha un luogo?
Dubito che lei sia in grado di comprendere. Tuttavia è vero : non posso scrivere senza Praga, ma il luogo dei miei personaggi e dei miei scritti non è la Praga concreta che io e lei possiamo frequentare. La mia è una Praga ipotetica. No, la mia letteratura non ha un luogo, se per luogo lei intende un posto fisico vero e concreto. Però Praga è in tutti i luoghi della mia letteratura.In realtà io non mi sento legato a nessun luogo geografico, le mie radici profonde sono ebraiche e sempre più spesso medito di trasferirmi a Gerusalemme, tuttavia Gerusalemme è un luogo dell’anima, non un posto. Anche per un Cristiano, credo io, il Regno di Cristo è un’utopia: nel senso che è un posto che non ha un luogo. A Praga sono cresciuto ed ho lavorato. Non mi nascondo, però, il fatto che il Castello, il complesso di S. Vito, così arroccato a difesa dell’oligarchia boema, la stessa pianta della città, rappresentino ostacoli invalicabili tra me e la “nazione”.
In effetti lei si è allontanato molto di rado dalla sua Praga.
Anche questo è vero: la Zum Turm paterna è il punto di riferimento della mia vita e dai miei racconti. Se non viaggio è principalmente per motivi di salute, non sono culturalmente un sedentario. Dire che non posso scrivere senza Praga non significa che non posso muovermi da Praga e che non posso trarre ispirazione fuori da Praga. Il fatto che Praga sia un non luogo della mia scrittura ha un vantaggio. Praga mi è presente anche se non mi trovo a Praga. Tra l’agosto ed il settembre del 1911 il mio amico Max Brod mi ha convinto a venire da voi in Italia e raggiungere Parigi dopo aver visitato Milano e la costa ligure… purtroppo il viaggio è finito nel sanatorio di Erlenbach in solitudine, anche Max ha dovuto lasciarmi. Tuttavia ad Erlenbach avevo con me la mia Praga, la Praga dei miei racconti. Anche in quel brutto posto ho potuto lavorare e pensare come se fossi a Praga.
Max Brod è uno dei suoi pochi amici…che rapporto c’è tra la sua solitudine e la sua letteratura?
Santo cielo, che idiozia!Non è vero che ho pochi amici, voi conoscete Max perché è abituale frequentatore dei circoli letterari, dei grandi editori, dei salotti…io vivo fuori da tutto questo e con me i miei amici più veri…per questo posso continuare a scrivere senza troppi condizionamenti. Non potrei mai frequentare un salotto letterario. Poi, guardi. Anche se non avessi amici li troverei nei miei personaggi. Scrivo anche per crearmi degli amici, certo, concretamente sono fatti di inchiostro, ma mi accompagnano nelle giornate del mio lavoro e mi raccontano la loro vita. Però quello che dovrebbe sforzarsi di comprendere è che quei personaggi di carta non ci sarebbero se non conoscessi dei personaggi di carne dei quali quelli letterari sono fantasmi.
Non voglio irritarla, ma onestamente c’è un po’ di differenza tra un amico in carne ed ossa ed un personaggio della letteratura.
Non mi ha irritato la sua domanda, ma la sua stupidità. Sono irritato da quello che circonda l’arte e finisce con il condizionarla. Il punto è che la mia scrittura nasce da una istanza intima dalla quale però vorrei che emergesse solo quello che ritengo condivisibile con il pubblico. Come per ogni scrittore, ci sono delle grosse distanze tra quello che sento, quello che scrivo, quello che il pubblico sente quando legge.
C’è un mondo che lei chiama reale, c’è un mondo dentro di me e c’è un mondo che scrivo nei miei racconti. Ognuno di questi tre mondi non potrebbe esistere senza gli altri due.
Ripeto: mondo reale, mondo in me e mondo che scrivo.
Uno scrittore ha una vita privata fatta dagli affetti, dalle amicizie, dalla salute. I miei scritti nascono dalle emozioni scaturite da tutto questo e già ne sono una mediazione, altra mediazione si ha nella testa di chi legge. Il risultato è che quello che è nella testa di chi scrive è molto distante da quello che è nella testa di chi legge, per questo conviene fermarsi a quello che è scritto, senza pensare troppo al resto.
Attenzione, poi ci sono le emozioni. Ecco le emozioni di chi scrive e di chi legge, soltanto richiamate dalle parole scritte, dovrebbero essere vicine e somigliarsi quanto più possibile. Guardi, mi piacerebbe leggere i miei racconti digeriti e riscritti da qualcun altro. Vorrei misurarmi con il risultato di questa digestione delle mie emozioni nello stomaco di un lettore e scrittore che non sono io. Una cosa del genere sarebbe meglio di molte critiche fasulle e artefatte.
Torniamo indietro: insistevo sull’amicizia perché nei suoi scritti il tema della solitudine sembra essere centrale.
Scusi, ma dove vede la centralità del tema della solitudine?
Per esempio nelle “Metamorfosi”: Gregor, trasformatosi in scarafaggio si trova solo, accudito dalla vecchia serva, che poi, una volta morto, lo getta nella spazzatura. Nel “Processo”, appena pubblicato, Josef K viene assorbito a tal punto dalla sua difesa da perdere il lavoro ed ogni legame sociale.
Lei conosce Wittgenstein?
Ho letto il Tractatus logico-philosophicus, è stato pubblicato da poco. Che c’entra in tutto questo?
Vede, nell’opera di Wittgenstein, a mio avviso, emerge un dato fondamentale: nel linguaggio i singoli elementi che lo compongono prendono il valore che è loro attribuito dal “gioco” al quale partecipano. Alcune espressioni sarebbero prive di significato se non trovassero senso nel complesso linguistico. Si possono fare molti esempi. In Italia voi dite : “menare il can per l’aia”, che senso ha? Nessun senso se non inserissimo questo gioco in qualcosa di più grande di lui: il linguaggio, che è fatto dalle esperienze individuali e collettive degli uomini.
Perché in questo mondo nessuno è più capace di giocare?
E’ vero anche che ci sono poi dei momenti che vanno raccontanti per quello che sono e basta. Anche un mal di pancia di Giulio Cesare ha senso in se stesso e vale la pena di essere raccontato per quello che è. Ciò non toglie che qualche critico potrebbe affermare:
“l’autore descrive il mal di pancia di Giulio Cesare nell’intenzione di collocare il grande personaggio storico nella quotidianità, condivisa da tutti gli uomini del mondo in ogni epoca”….
Che fesseria! A volte il critico ha ragione, a volte, e più spesso, ha torto. Quando ha ragione ce l’ha per fortuna. Molti autori vogliono descrivere i momenti di un uomo per quello che sono, senza finalità, senza trama, senza quelli che chiamerei secondi fini. Quel che conta, magari, è che il lettore simpatizzi con Giulio Cesare o lo prenda in antipatia, ma ne ne colga l’emozione che lo coinvolge insieme all’autore del racconto. L’importante è che il lettore provi emozioni e viva quel momento. Questo è possibile se il lettore si mette in gioco e gioca con il racconto.
Allora, riformulo la domanda: che ruolo giocano nella sua opera i temi della solitudine o della mancata amicizia?
Vede, nelle Metamorfosi la solitudine alla quale lei fa un inutile riferimento non è trattata in quanto solitudine: è piuttosto solo una conseguenza del castigo al quale viene condannato il protagonista che si scopre responsabile di una colpa della quale, peraltro, ignora la genesi e la sua eventuale responsabilità. A quanti di noi non può capitare lo stesso? Allora leggiamo le Metamorfosi e mettiamoci ipoteticamente in gioco! Decideremo noi, nel nostro gioco quanto e se sentirci soli. La solitudine del personaggio è lì a disposizione del lettore che quindi può confrontarsi con questo aspetto della narrazione.
Cosa c’entra quindi la solitudine? Niente. Eppure è importante come la pallina in una partita di tennis. Nessuno farebbe una domanda sulla pallina. Quello che conta è come ci giochino i tennisti. Le piace il tennis? A me no. Ma la pallina non è responsabile di questo. Lei è un critico attento ma mi conferma che è meglio non pubblicare l’opera alla quale sto finendo di lavorare e che centrata sull’imperscrutabilità del Castello.
Perché?
La comprensione da parte di un critico, anche se preparato ed intelligente come lei, di un’opera letteraria è sempre demoralizzante per l’autore. Voi critici uscite dalla disponibilità del gioco, dalla letteratura ipotetica per cristallizzarla nella vostra lettura. Voi critici siete il Castello contro il quale si deve misurare ogni volta l’autore. Uccidete anche il lettore e la sua fantasia. Voi critici siete il Regime.
Ma scusi, allora, perché lei scrive?
Le voglio confidare una cosa che ho scritto anche nei miei diari. Io non scrivo per il lettore ma per rimediare al mio fallimento di uomo. Il mio protagonista è sempre uno che si contrappone all’oppressione, un Prometeo e non un Tantalo, come qualche sprovveduto ha scritto. Il mio eroe quotidiano tenta di sopravvivere all’apparato che non si vede e che ci condiziona. Il mio eroe vince solo nel mondo che io descrivo….del resto in questo mondo reale il mio personaggio non avrebbe alcuna possibilità.
Ci spieghi.
Il mondo, questo mondo, non mi piace, però non ho la forza di cambiarlo nella realtà. Non saprei neanche come far fronte alla mia incapacità, al mio fallimento, alla noia ed all’impotenza generate dalla rete di rapporti familiari, burocratici, convenzionali. Io non descrivo e basta, come fanno altri. Io costruisco un mondo diverso e sono capace di farlo in un racconto, ma non nella realtà.
Guardi, non sono la pigrizia, la cattiva volontà, la goffaggine che mi fanno fallire o non fallire: la vita familiare, gli amici, mia zia, la professione, la letteratura, ma è l’assenza del suolo, dell’aria, di un punto di riferimento, della legge giusta e certa. Crearmi queste cose, ecco il mio compito… il compito più originale, quello che affido ai miei personaggi. E non creda che il personaggio vince solo quando sovverte l’ordine costituito. Per me, per me che lo creo, un personaggio è un eroe quando riesce a vivere liberamente i momenti della sua vita quotidiana. Naturalmente il mio mondo, come il mondo reale, è fatto di vincitori e di vinti.
Forse nella sua opera non ci sono i “fatti” della sua vita, però è ben presente la sua stessa esistenza con il bagaglio di esperienze che si porta dietro!
Torniamo al tema della solitudine: io vivo in famiglia fra le persone migliori e più amorevoli, però vivo con loro più estraneo di un estraneo. Con mia madre non ho scambiato in questi ultimi anni più di venti parole in media al giorno, con mio padre niente più di un saluto. Nella mia opera c’è tutto questo ma non deve ridursi a questo: la mia famiglia, tanto per intenderci, non è la famiglia nella quale vive il protagonista delle Metamorfosi, eppure quella non potrebbe esistere senza la mia famiglia. Ma al lettore io chiedo di v i v e r e la famiglia delle Metamorfosi, di giocare con la famiglia ipotetica del mio racconto, a lui non deve interessare nulla della mia famiglia reale.
Certo che la sua è una bella pretesa. Pensa di avere sviluppato un’adeguata tecnica di scrittura?
No, con la scrittura non riesco sempre a fare quello che vorrei. Anche la vita reale è un gioco e come ogni gioco ha delle regole. Il compito della mia scrittura è quella di giocare una partita con le stesse regole della vita, ma con atleti ed esiti diversi. Forse la scrittura non è la tattica migliore per vincere questo gioco. Mi piacerebbe riuscire a lavorare per il cinema, ne sono tremendamente affascinato e…terrorizzato. Credo che con il cinema, a saperci fare, si possa creare quel mondo ideale che è sogno di tutta la letteratura. Diciamo che il cinema è il modo migliore e più reale per vincere la partita. C’è anche il fatto che il cinema, rispetto al libro, ha una capacità di coinvolgere il pubblico senz’altro maggiore e secondo la prospettiva più intima dell’autore. Possiede una dimensione in più che lo avvicina alla realtà. Sia chiaro, sto parlando della realtà pensata e vissuta da chi pensa e vive l’opera. D’altra parte il cinema lascia lo spettatore meno solo del lettore, impedendogli di divagare con la sua fantasia. Il cinema coinvolge ma secondo le reali intenzioni dell’autore. Questo sarà poco rispettoso per il pubblico ma è senz’altro motivo di soddisfazione, forse solo edonistica, per l’autore. E’ una novità, vedremo come si svilupperà nel futuro o se troveremo altre strategie per vincere la partita….
Ma, a questo punto, non è più responsabile dedicarsi alla politica? Non le sembra questo uno strumento serio e concreto per costruire il mondo che lei sogna?
Lo sguardo dell’attore che si presta a Kafka si fa triste. Fino a quel momento era stato inespressivo. I ragazzi se ne accorgono. Mormorano. Se questa intervista ipotetica tocca il tema della politica chiudono l’Università, pensano alcuni.
Platone, il più grande pensatore di sempre, è riuscito a costruire una sua Repubblica, certamente figlia del suo tempo, ma nella quale il filosofo credeva con tutte le sue forze. Platone ha realizzato il suo sogno, che ancora ci è presente, ma solo scrivendolo. Il sogno di Platone è rimasto un sogno ipotetico, che è diverso da un’ utopia. Quando ha provato a portarlo nella storia… dovette fuggire da Siracusa. La sua VII Epistola è l’esempio più alto del fallimento politico, ma al tempo stesso il sogno più concreto e realizzabile di una politica ipotetica. Politica ipotetica e letteratura ipotetica nella Repubblica di Platone si fondono. Nella storia questo non sarebbe stato possibile e sono contento del fallimento di Platone a Siracusa. Oggi lo ricorderemo come uno dei tanti tiranni che hanno fallito la loro missione e se anche avesse portato a compimento il suo ideale della Repubblica presto o tardi quello Stato sarebbe fallito e i vincitori avrebbero scritto la storia per i vinti, rendendo Platone un pazzo e un visionario. Qualcuno ha scritto che tutta la filosofia è una glossa in calce al pensiero di Platone, mi permetto di aggiungere che tutti i fallimenti politici sono un epilogo, scontato, del tentativo di rendere storia la filosofia ipotetica di Platone e della sua più grande invenzione ipotetica: Socrate.
Lei però sembra un fiume in piena…quasi un politico!
Guardi, ho grande rispetto per chi fa politica e tenta di risolvere i problemi. Naturalmente ho rispetto dei pochissimi che fanno politica ispirati da ipotesi, che qualcuno chiama ideali. Purtroppo io non sono capace di far questo. Non sono capace di scardinare il Castello senza esserne divorato, non riesco a trovare il filo capace di condurmi fuori dal labirinto intessuto dalla burocrazia e non ho la stoffa del rivoluzionario. Attraverso i miei personaggi, però, cerco di scrivere come vorrei che fosse il mondo, come vorrei che non fosse, posso raccontare come è…e quest’ultimo, forse, è l’obiettivo più facilmente perseguibile da una politica ipotetica….
BUUUUMMMMM
….come quella che insegna da anni il professor Huber, sopportato appena da questo stupido regime teologico-fasciocomunista….
furono le ultime parole pronunciate dall’attore che interpretava Kafka nell’intervista ipotetica.
Il brusio di ammirazione che da qualche minuto era cominciato a circolare in aula fu interrotto da un rumore sordo e violento. Quelli dei primi banchi avvertirono un inconsueto odore di bruciato, simile a quello dello zolfo. Si accese la luce e una guardia si avventò sul proiettore mandandolo rovinosamente a terra, dove si frantumò in mille pezzi. Al centro della scena il professore impugnava un revolver, una grossa pistola di quelle che si vedevano nei film western prima dell’avvento della censura, la sua grossa testa pelata giaceva fumante e devastata sul grande tavolo dell’aula magna. Intorno a lui schizzi di sangue e resti di materiale fuoriuscito dal cranio.
Dietro di lui Sinibaldi invitava alla calma. Come al solito non aveva capito niente. Il professore associato, seppure con grande fatica, però ottenne il silenzio da un’aula educata alla disciplina. Girò veloce intorno al grande tavolo delle conferenze e si impadronì del microfono:
Allora ragazzi, quelli che hanno un cognome che inizia dalla lettera A alla lettera C possono sostenere l’esame oggi….appena troveremo un posto adeguato, gli altri si prenotino in Segreteria….
Ma vaffanculo, brutto scarafaggio !, disse a voce alta la ragazza secca e pallida. Raccolse le Metamorfosi e se ne andò.
L’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare. Perciò nel mondo non esiste una vera possibilità di giudizio, ma solo il suo riflesso.
Kafka
