Eilenberger non è Yalom, la sua opera non vuole essere un romanzo. Quindi, per cortesia, nessun paragone con Le lacrime di Nietzsche!
Tuttavia Il tempo degli Stregoni è una storia. Una storia scritta bene. Forse non è un romanzo filosofico, ma una storia sì.
La stessa filosofia degli anni ’20 in Germania non può essere altro che una storia, un racconto approssimativo per giunta.
Sì, perché quella filosofia, in quegli anni, in Germania, ci ha consegnato una consapevolezza:
la filosofia studia qualcosa che non ricade nel campo delle scienze. La filosofia stessa non è sapere.
È Wittgenstein che ce lo dice nelle ultime pagine del bel libro di Eilenberger :
“Se l’etica nasce dal desiderio di dire qualcosa sul senso ultimo della vita, non può essere una scienza. Ciò che essa dice non accresce il nostro sapere in alcun modo. Essa testimonia un bisogno della coscienza umana, per il quale provo da parte mia il più grande rispetto e che non vorrei mai, a nessun prezzo, mettere in ridicolo”.
Ecco allora che la storia che ci racconta Eilenberger diventa un racconto intrecciato tra le vite e i tormenti di quattro grandi pensatori di lingua tedesca: Heidegger, Benjamin, Cassirer e Wittgenstein. Grandi pensatori, certo, ma non per questo uomini in grado di orientarsi nella Germania degli anni ’20, quella stessa Germania che da lì a poco incendierà il mondo.
Un conto è pensare in un eremo alpino o insegnare in una confortevole aula universitaria, altro agire. Lo sa bene Benjamin, il più sperduto dei quattro.
Viene in mente la celebre frase di Freud: chi segue la psicanalisi non è un uomo migliore degli altri. Tanto è irriducibile la domanda filosofica alla com-prensione dell’uomo, che uomini che si pongono le domande fondamentali non sempre riescono a vivere una vita in linea con i propri interrogativi.
Tutti, tranne uno, diremmo.
Ludwig Wittgenstein appare da subito il più coerente dei quattro: incapace di trovare risposte e ugualmente incapace di trovare un senso alla propria vita. Tuttavia il più onesto. Brucia la scala che gli è servita per raggiungere le vette del Tractatus e alla fine… tace.
Ma non resta immobile: ci indica un punto che sarà capace di cogliere soltanto colui che lo ha già visto.
Gli altri pretendono di trovare risposte alle domande fondamentali, ma dimostrano con la propria biografia di non (poter) trovare strade altrettanto sicure per raggiungere la soluzione agli interrogativi etici ed esistenziali che la loro stessa scienza pone.
Di ciò che non si può parlare si deve tacere.
Le storie dei quattro balbettano soltanto sulla verità, forse appena colta come anticipazione dell’essere nella notte buia degli anni ’20 in Germania. Intuiscono, percepiscono il fondamento, ma non lo sanno raccontare. Soprattutto non lo sanno vivere. Heidegger appare per quello che è, un uomo mediocre incline al compromesso. Niente a che vedere con la sua profonda analisi dell’essere.
Scandaglia quell’essere misterioso e poi convive con il nazismo. Suona falso, così come suona falso il suo matrimonio, impeccabile nella forma, ma condito da relazioni clandestine che potrebbero essere vendute ai posteri come concessioni dionisiache a Nietzsche. Ma non è così, non c’è niente di sublime, almeno da parte del filosofo. O forse sì: non è certo un gossip la relazione tra Heiddeger, trentacinquenne felicemente sposato, e la diciottenne ebrea Hannah Arendt. Il tradimento filosofico della giovane, che si laurea con Jaspers su Agostino, poi la notte del fascismo, il rettorato del filosofo divenuto cult nella Germania nazista, i matrimoni e la fuga di Hannah.
Alla fine della guerra si vedranno in tre, è presente anche Elfride, la moglie Heidegger, e le due donne litigheranno sull’ebraismo. Brutto sipario su una storia che oggi non può che apparirci in tutta la sua miseria.
Cassirer, appare rassicurante. Troppo. Si avventura in una indagine che dovrebbe riportarlo alla primitiva struttura del simbolo, ma non ha mai il coraggio di un salto oltre il paludato e comodo mondo accademico. La sua filosofia non accende mai una vita comoda e borghese. Eppure ne sa più di tutti. Gli mancherà lo slancio, lo sprint, l’appeal per la cultura dominante. Un mediocre borghese.
Al contrario Benjamin, che dissipa il proprio talento in progetti mai intrapresi e solo pensati, in amori impossibili, nelle serate mondane, in un’adesione apatica alla Rivoluzione sovietica e che finisce suicida nel 1940. Un fuoco disordinato, senza luce. Un genio rinchiuso nella lampada.
E poi, c’è lui, Wittgenstein, un outsider geniale. Un santo laico, forse. Un uomo che vive ai margini e che come tutti i santi è idolatrato senza essere compreso. Ed è proprio Wittgenstein, a cui forse vanno le simpatie di Wolfram Eilenberger e certamente di chi scrive, che dà il senso di questo tormentato intreccio tra esistenze e scienza, tra domanda e risposte, tra vita e pensiero.
La sua storia chiude il libro. Nel 1930 inizia il suo insegnamento a Cambridge. Poco prima di partire per le ferie, un assistente gli chiede con quale titolo dovrà essere annunciato il suo corso nel calendario dell’università:
“Filosofia. Che altro?”
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