Ecologia sociale o sarà il disastro
- Il Divario di mobilità (mobility divide)
Con una serie di articoli di sintesi provo a riflettere sulle ragioni del fallimento di una stagione politica, quella ambientalista degli esordi, che si apre con la crisi energetica degli anni ’70 del secolo scorso, e sulle possibili vie di uscita. Ritengo quella fase del percorso ecologista riformista ingenua quanto entusiasmante, chiusa e fallita. Non abbiamo voluto cogliere il significato di quello che pretendevamo di essere: ecologisti. Ci siamo occupati di tenere pulita la casa, ma non abbiamo capito che c’erano coinquilini che sporcavamo perché costretti dall’organizzazione stessa della casa. Il pianeta sta morendo, o meglio, sta per essere giustiziato e non è più sufficiente una riflessione morbida sulla transizione energetica, che pure stenta a decollare. Ecologia e giustizia sociale hanno assunto un legame con scenari che solo fino a qualche anno fa avremmo considerati distopici e che presentano il problema in tutta la sua drammaticità, lasciando intravedere un finale di film in cui soltanto pochi fortunati viaggeranno in prima classe su una navicella in grado di salvarli o quantomeno prolungarne l’agonia, visto che la Terra non si salverà, almeno nella forma alla quale siamo abituati. Per gli altri miseria e morte correranno di pari passo con l’esaurirsi delle risorse naturali e l’escalation delle tensioni sociali. Non basta fare “qualcosa presto”. Bisogna fare tutto, immediatamente.
Qui parlerò di un problema che sta già interessando le grandi metropoli e le aree collegate a queste. L’impossibilità di muoversi liberamente all’interno delle grandi città a causa dell’inurbamento del territorio e l’impossibilità di coltivare l’illusione di una mobilità dolce come soluzione.
Il contesto
L’11 luglio scorso è stato pubblicato il 2022 Revision of World Population Prospects, report annuale delle Nazioni Unite che fotografa l’attuale situazione demografica mondiale e descrive delle prospettive future.
In questo momento, il 15 novembre 2022 per l’esattezza, la popolazione globale dovrebbe raggiungere quota otto miliardi. Fino al 2100 la popolazione, salvo guerre e carestie, continuerà ad aumentare, toccando gli 8,5 miliardi nel 2030, i 9,7 miliardi nel 2050 e i 10,4 miliardi nel 2100. Nel 2021 i due Paesi più popolosi al mondo erano Cina (al primo posto con 1,43 miliardi di abitanti) e India (al secondo posto con 1,41 miliardi). Nel 2023, però, gli indiani balzeranno in testa alla classifica: attorno al 2060 l’India raggiungerà il picco con 1,7 miliardi di persone, per poi iniziare a decrescere. La popolazione cinese, invece, inizierà a decrescere già nei prossimi anni, fino a quasi dimezzarsi nel 2100, quando sul pianeta rimarranno “appena” 776 milioni di cinesi.

In Europa, la tendenza generale è di decrescita, con l’eccezione del Regno Unito, destinato a sorpassare la Germania come paese più popoloso del vecchio continente. In Italia la curva demografica ci porterà ad essere meno di 40 milioni, salvo immigrazioni, necessarie a tenere in vita la forza lavoro della seconda potenza manufatturiera europea.
I Paesi che contribuiranno maggiormente alla crescita della popolazione globale sono quelli dell’Africa subsahariana, dove si concentrerà oltre la metà dei nuovi abitanti della terra fino al 2050. In generale, non è certo una sorpresa, la tendenza è di crescita per i Paesi meno sviluppati (dove i tassi di fertilità sono molto maggiori) e di decrescita per quelli più ricchi.
I due fattori che guidano queste proiezioni al rialzo della popolazione mondiale sono l’aspettativa di vita e il tasso di natalità. La prima nel 2019 si attestava attorno ai 73 anni, quasi 9 anni in più rispetto al 1990. Chi nascerà nel 2050 potrà essere più ottimista sulla sua longevità: potrà vivere fino a oltre 77 anni di età.
Al tasso di mortalità fa da controcanto quello di natalità. Anche qui nei Paesi più poveri, nel 2021 la quota di figli per madre si attestava ai 4,6 (negli anni 90, era a 6,5), mentre nei Paesi più ricchi le donne hanno in media 1,5 figli (con l’Italia sotto la media, a quota 1,28).
Di seguito le proiezioni di fertilità nei Paesi a basso (Low-income countries), medio-basso (Lower-middle-income countries) e alto reddito (High-income countries).

Sotto a tutti l’Italia, che vedrà un leggero rialzo nel numero medio di figli per donna (da 1,29 attuale all’1,52 del 2100). © Our World in Data
La combinazione di questi due fattori: decrescita della natalità e innalzamento dell’aspettativa di vita producono un altro fattore da tenere in grande considerazione: un generale invecchiamento della popolazione. Oggi gli over 65 rappresentano circa il 10% della popolazione mondiale: nel 2050 saranno il 16% del totale, il doppio dei bambini minori di 5 anni e circa lo stesso numero degli under 12.
Visto che non faremo più figli, noi abitanti dei Paesi ricchi aumenteremo la nostra popolazione principalmente grazie alle immigrazioni: tra il 2000 e il 2020, le stesse immigrazioni (80,5 milioni di persone) hanno superato il numero di nascite rispetto alle morti (66,2 milioni). Diversa la situazione dei Paesi poveri dove, almeno per il futuro prossimo, il principale motore dell’aumento della popolazione saranno ancora le nascite, superiori rispetto alle morti.


17 luglio 2022 Chiara Guzzonato
Questi dati descrivono lo scenario che ci porta ad una serie di considerazioni. La prima, che può apparire marginale ma non lo è, riguarda la mobilità nelle grandi metropoli e nelle aree urbane in generale. Intendiamo mobilità in senso lato, non solo quella degli spostamenti per lavoro, istruzione, tempo libero. La difficoltà di movimento come vedremo in breve, porterà ad accelerare la scomposizione sociale della società all’interno della stessa città, fenomeno da non sottovalutare anche ai fini dei possibili conflitti sociali in vista.
Un incremento della popolazione, una disponibilità di risorse alimentari e di servizi limitata, un invecchiamento generale che sarà bilanciato dalla immigrazione, producono un effetto evidente già da qualche anno: l’inurbamento massiccio di masse di persone che si spostano dalle aree rurali alle grandi città.
In basso vediamo il grafico che rappresenta questo fenomeno in Nigeria e in Africa e subito dopo in Italia ed in Europa.


World Urbanization Prospects – Population Division – United Nations
I tre fattori che dobbiamo quindi considerare nel medio periodo sono:
- Incremento della popolazione;
- Invecchiamento della popolazione;
- Inurbamento
La mobilità urbana
In questo primo post analizzeremo la risposta che alcune grandi metropoli, Roma e soprattutto Parigi, stanno dando al fenomeno dell’inurbamento in relazione al tema della mobilità urbana. Vedremo come questo tema sia fortemente legato alla “questione sociale” e cercherò di rendere evidente nei fatti come la “mobilità dolce” proposta come panacea di tutti i mali dagli ambientalisti, non risolva alcun problema se isolata da una serie di grandi riforme urbanistiche. Il problema non è come si muovono i cittadini ma perchè si muovono .
Muoversi in maniera sostenibile, in generale muoversi, sarà nell’immediato futuro appannaggio solo delle classi più abbienti che si potranno permettere di abitare dove sono centrati i propri interessi professionali e lavorativi.
Il convitato di pietra di queste considerazioni è l’automobile privata. L’Italia è la nazione europea con il maggior numero di auto in rapporto alla popolazione. Secondo gli ultimi numeri resi noti dall’agenzia europea di statistica, e relativi al 2019, nel nostro paese c’erano 663 auto ogni mille abitanti contro 574 della Germania, 519 della Spagna e 482 della Francia. La Germania resta la nazione con il maggior numero totale di veicoli: 47,7 milioni contro i 39,6 italiani.
Dal 2015 al 2019 c’è stata una significativa crescita di automobili in diversi paesi europei, Italia inclusa, più rapida però spesso nei luoghi che partivano da valori inferiori. Questo vale in particolare per l’est del continente come Romania (+34%), Lituania (+20%), Ungheria (+19%), Slovenia e Polonia (+18%). L’unica nazione in cui le auto sono meno rispetto a cinque anni fa è la Bulgaria, dove si sono ridotte del 10,5%.
Come ricorda l’agenzia europea per l’ambiente (EEA) si tratta di una tendenza a lungo termine, e dal 2000 al 2017 nelle 28 nazioni europee i veicoli per abitanti sono cresciuti dell’1,4% l’anno passando da 411 a 516 ogni 1.000 abitanti (da“Il Sole24ore” Perché l’Italia è la nazione europea con il maggior numero di auto? (considerati i suoi abitanti) – Info Data (ilsole24ore.com)
Un recente sciopero contro il caro benzina a Parigi ha evidenziato però un fenomeno significativo. Ai parigini, quelli della ZTL diremmo noi, entro la tangenziale dicono loro, non è cambiato nulla. Gli altri, non potendo approvvigionarsi di carburante, hanno perso giornate di lavoro e di studio. (Anche per i dati sotto: Le Monde)
Mentre la Francia delle regioni e delle periferie fatica a fare rifornimento, gli abitanti della sua capitale, il 65% dei quali non ha un’auto e solo il 25% la usa per i propri spostamenti quotidiani, dagli scioperi non hanno avuto conseguenze sulla loro vita quotidiana.
Questa eccezione dei venti arrondissement parigini deriva dalla straordinaria quantità di ricchezza e luoghi di potere che la storia del paese ha concentrato a Parigi. Così come la densità, senza eguali al mondo, dei suoi trasporti pubblici. Dentro la tangenziale la percentuale di parigini che vivono vicino a una metropolitana veloce e frequente è del 100%, una quota ridotta in media della metà non appena si attraversa la tangenziale.
Questa libertà di poter fare a meno di un’auto è un privilegio soltanto per una fetta di popolazione. A livello nazionale, “il 45% dei francesi afferma di non avere accesso ai trasporti pubblici. Nelle aree rurali, la percentuale sale al 71%, rispetto all’8% nelle grandi città. La differenza è enorme”, osserva Sandra Hoibian, direttrice generale del Centro di ricerca per lo studio e l’osservazione delle condizioni di vita (Crédoc), su Le Parisien l’11 ottobre 22.
Sempre Le Monde ci informa di un dato statistico inquietante e che riguarda L’ Ile-de-France: mentre i consiglieri comunali parigini promettono una “città del quarto d’ora” dove tutto, dalla scuola ai negozi, dallo sport alla salute, è a meno di 15 minuti a piedi, i pendolari più lontani ricorrono, volenti o nolenti, all’auto per l’87% dei loro spostamenti.
Insomma Parigi è il prototipo della grande metropoli ecologica del futuro che alle tante diseguaglianze aggiunge un punto di eccezionale importanza e che il quotidiano francese chiama felicemente “divario di mobilità”, materializzato dal muro di cemento della tangenziale, un’autostrada urbana di 35 chilometri che, tranne che a ovest, separa due paesaggi urbani, due universi sociali, un muro invalicabile, paradossalmente rappresentato da un simbolo della mobilità: una strada.
Da una parte e dall’altra della tangenziale, si vive in due mondi irriducibili. Al di là della “periferia”, un metro quadro di abitazione registra in media un valore più basso del 30% e addirittura il 60% rispetto agli immobili collocati tra il 18° arrondissement e Aubervilliers o Saint-Denis, in Senna-Saint-Denis. Nei sobborghi meno ricchi e meno serviti, gli abitanti che possiedono una casa aggiungono al danno la beffa: pagano tasse di proprietà molto più alte rispetto ai parigini del centro città. Per quanto riguarda i servizi pubblici, essi tendono a funzionare in modo degradato non appena attraversano la barriera.
Tutto questo si traduce anche in un dato elettorale: al centro vince la sinistra ecologista, in periferia trionfa la destra. È una questione di percentuale e di collegi elettorali: la sindaca di Parigi, la socialista ecologista Anne Hidalgo è stata rieletta nella capitale e sonoramente bocciata alle presidenziali. Un po’ quello che è successo a Roma con il Sindaco Gualtieri del PD e le successive elezioni politiche in cui quasi tutti i collegi sono andati alla destra, tranne uno storicamente di sinistra e quello del centro storico.
La risposta ecologista: usa la bicicletta!
In tutto questo parlare di bicicletta può sembrare superfluo ed anche risibile, ma è un simbolo della illusoria risposta ecologista. Premetto che chi scrive si muove in città con la bici e sfida quanto appena detto su Parigi: vivendo fuori Roma parcheggio la mia automobile prima di arrivare al GRA e negli ultimi anni della mia attività lavorativa ho percorso 16+16 km in bici per andare a lavoro. Quindi nessun preconcetto, anzi: amo in maniera folle la bici (muscolare).
Durante il lockdown Roma ha incrementato enormemente il numero dei chilometri percorribili su ciclabili o simil ciclabili e questa è una buona cosa anche se ha causato tensioni più o meno carsiche. La Ciclabile Tuscolana è stata profondamente criticata, anche da una associazione che si intitola ad Enrico Berlinguer, così come altre nel quadrante nord di Roma. Si discute se il GRAB (Grande Raccordo Anulare per le Biciclette) debba passare nei parchi pubblici e altre amenità del genere. I fondi europei stanno finanziando progetti molto interessanti di mobilità sostenibili e sicuramente tutto questo contribuirà a decongestionare il traffico in prossimità del centro storico. Ma è una goccia che nasconde il problema.
Roma ha una ZTL nella quale sono concentrati Uffici Pubblici, banche, negozi, musei, chiese con quadri di Caravaggio, opere di Michelangelo e quanto di bello sia stato fatto nell’antichità e nel Rinascimento. L’accesso in automobile alla ZTL è consentito ai residenti o ai lavoratori che dimostrino di possedere una serie di requisiti, si paga abbastanza e al suo interno è quasi impossibile parcheggiare. Se includiamo nel centro di Roma il Vaticano possiamo affermare che sia in assoluto il luogo al mondo con la concentrazione più alta di opere d’arte: andarle a visitare, per un romano è abbastanza problematico.
D’altra parte il solito povero marziano che atterrasse a Piazza Venezia, magari in un suo viaggio di controllo dopo esserci stato trenta anni fa, direbbe che Roma è una città in cui ci si muove in modo abbastanza sostenibile.
Ma cosa succede, ad esempio nel quadrante sud est, se da una zona fuori tangenziale ci si deve spostare verso il centro? Cosa succede se da Boccea dobbiamo arrivare a Garbatella? E se abitiamo ad Ostia e dobbiamo andare a lavorare a Roma Nord? Se viviamo a Talenti ed abbiamo prenotato una visita al Campus biomedico? E se da Tor Vergata, zona fuori GRA ma integrata nel tessuto cittadino, dovessimo raggiungere la sede del Consiglio regionale del Lazio, dall’altra parte del GRA? Dubito che potremmo utilizzare la bici. Non prendiamoci in giro! Non oso pensare cosa siano Città del Messico, New Delhi, Nairobi. Anche lì molte persone si spostano in bici, ma per fare cosa? Dove vanno?
La bici nelle metropoli è un indicatore sociale che descrive non tanto l’upperclass, ma coloro che non vivono il conflitto di mobilità tra i propri centri vitali, oppure che sono relegate ai margini e non possono permettersi un altro mezzo di trasporto.
Nelle campagne succede esattamente questo. Basta andare nell’Agro pontino per constatare come immigrati e lavoratori della terra si muovano prevalentemente in bici, ma questo è un altro capitolo.
Per la città no. Non funziona come nelle campagne di Latina. L’industria della bici ha sviluppato modelli sempre più “ricchi” ed accessoriati. Per non parlare della bici a pedalata assistita e della sua impronta ecologica. Sinceramente stento a definire mobilità sostenibile quella di un tale che percorre due chilometri pedalando con l’ausilio di un motore elettrico su una bici da tremila euro che rottamerà dopo tre o quattro anni al massimo. Preferirei che il tipo in questione si muovesse a piedi o prendesse l’autobus.
Se faccio promozione della bici in periferia o peggio nei paesi dell’Area metropolitana mi guardano come un fichetto che ha tempo da perdere. E fanno bene. Dentro la tangenziale, no. Dentro la tangenziale di Roma, all’interno della Ztl di Milano la bici si può e si deve usare. Si può utilizzare anche nell’estrema periferia, ma per muoversi dentro l’estrema periferia nella quale si vive. Ci sono poi altri discorsi relativi al tempo e che ci portano ad escludere l’impiego di bici e monopattini come risoluzione del divario di mobilità: la mia media in bici su percorsi cittadini è sui 18km /hh, più veloce di molte automobili (facile da controllare sul mio profilo Strava e confrontare con le statistiche sulla velocità dei diversi mezzi di trasporto). Non tutti però possono permettersi la mia media, che comunque, tra andata e ritorno, aggiunge 1h45’ minuti al mio orario di lavoro di otto ore.
Inoltre mi sono dedicato al bike to work quando ero ormai svincolato da accompagnamenti figli e non avevo passeggeri e bagagli da portare con me.
Onestamente: non possiamo dire agli abitanti delle periferie di muoversi in bici, come fanno quelli che devono pedalare per pochi chilometri al centro di una grande città.
È un atteggiamento spocchioso e che produce nella maggior parte dei casi irritazione. Lo dico senza mezzi termini. La mobilità sostenibile è ottima, può essere utilizzata in tutti i quadranti della città, ma non può essere lo strumento ordinario della risoluzione del divario di mobilità tra gli abitanti del centro e quelli delle periferie. Anzi, lo aggrava se non integrato all’interno di riforme imponenti del tessuto urbano e dei trasporti pubblici.
Il divide di mobilità tra chi abita al centro e chi in periferia si traduce in mancanza di opportunità culturali e formative, ghettizzazione, costi insostenibili per molte attività lavorative e di formazione e aggrava i motivi che danno origine allo stesso divario di mobilità, il divario sociale ed economico tra chi abita in centro e chi vive in periferia. Questo è un problema drammatico, ecologico nel senso pieno del termine e non può essere risolto con una pedalata. Non si tratta di calcolare la CO2 risparmiata in una pedalata, sarà sempre troppo poca. Si tratta di comprendere che i tre fattori che abbiamo citato all’inizio (popolazione, età media, inurbamento) sono sufficienti a produrre un disastro eco-sociale nelle grandi città, qualsiasi sia il mezzo di trasporto utilizzato per gli spostamenti.
Resta da affrontare il tema del trasporto pubblico. Questa è la mappa del trasporto pubblico di Roma.

Fonte Atac mappa-roma-città.pdf (atac.roma.it)
Ora chi conosce la situazione dei mezzi pubblici a Roma sa bene che la mappa è sin troppo generosa, tuttavia, già ad occhio si vede che la rete è insufficiente. .
Al di là di questo qui ci interessa notare che le direttrici siano essenzialmente legate allo spostamento tra centro e periferia e che la più alta densità di questa idea di mobilità per la città si evidenzia con una più forte concentrazione di linee man mano che ci avviciniamo al centro. L’idea urbanistica è una: se vuoi lavorare, se cerchi servizi, se ti devi spostare lo fai andando al centro e tornandotene a casa.
Ovviamente c’è chi lavora nel quartiere periferico nel quale vive, ma difficilmente avviene lo stesso per tutti i componenti dello stesso nucleo familiare e bisognerebbe anche analizzare la retribuzione media dei “lavori” nei diversi quartieri per farsi un’idea di quanto sia discriminante da questo punto di vista lavorare per un grande studio legale ai Parioli o per un piccolo studio al Trullo. Soprattutto bisognerebbe analizzare l’offerta lavorativa nei diversi cerchi concentrici e la differenza di reddito che si ha man mano che si allontana dal centro. Le persone “devono” spostarsi verso il centro se vogliono vivere dignitosamente.
Del resto basta analizzare i flussi di passeggeri sulle linee metro di Roma e Milano per constatare un fatto empiricamente evidente: alle 8 di mattina i veicoli sono pieni in direzione centro e vuoti in direzione periferia.
Idee sparse per una equa ecologia urbana
La differenza di opportunità di mobilità tra gli abitanti del centro e quelli di una periferia urbana è un sintomo ed al tempo stesso una causa della scomposizione sociale della società. Immigrati e classi meno abbienti relegati in periferia e classi medio alte al centro.
In questo senso e sotto questo aspetto, la “città dei 15 minuti” proposta a Parigi e Roma è una soluzione che può avere indesiderate conseguenze classiste e ostative all’attivazione dell’ascensore sociale: a 15 minuti dalla periferia a Roma non trovi niente.
Sia chiaro: avere a 15 minuti ospedali, scuole, uffici pubblici, è un elemento che alza il livello della qualità della vita, ma tutto questo andrebbe progettato e avrebbe dei costi enormi, oltreché tempi biblici. Osserviamo intanto che i costi economici dei Servizi hanno fatto registrare una tendenza inversa: piccoli ospedali e piccole scuole hanno chiuso i battenti, sostituiti da grandi nosocomi e grandi istituti scolastici sparsi nella città e, per chi non abita nel quartiere, non sono raggiungibili in quindici minuti neanche in elicottero. Per lo stesso motivo di bilanci da tenere in ordine molti ospedali sono specializzati soltanto in determinate cure e comunque non c’è una proposta ugualmente distribuita sul territorio urbano.
Ovviamente il problema è planetario e la soluzione richiederebbe una governance mondiale. Purtroppo a stento riusciamo ad avere un governo delle grandi città in grado di programmare, figurarsi se un mondo in preda ai nazionalismi potrà evitare la nostra estinzione. Mi limito quindi a indicare ipotesi di strategia urbanistica che a mio avviso, incidendo sul divario di mobilità, possono favorire l’abbattimento del divario sociale e al tempo stesso limitare l’impronta ecologica dei grandi centri urbani.
Per consentire alle famiglie di vivere vicino al proprio lavoro ed ai centri di interesse dovremmo provare a spostare i loro letti, piuttosto che il luogo di lavoro.
L’idea non è nuova, agli albori della rivoluzione industriale Robert Owen aveva abbozzato una proposta in questo senso, che ovviamente oggi è irrealizzabile. Qui stiamo parlando di una permeabilità dei centri cittadini alla residenza di chi è relegato “fuori”. I binari sono due: spostare i poli produttivi in periferia e rioccupare i centri storici con la vita delle famiglie, anche attraverso l’acquisizione al patrimonio pubblico di immobili in prossimità dei centri storici da destinare ad alloggi popolari ed edilizia agevolata e interamente finanziata per quanto riguarda le ristrutturazioni finalizzate alla riduzione dell’impronta energetica (già oggi gran parte del patrimonio immobiliare a Roma è del Comune o di Enti Pubblici, per non parlare del Vaticano), evitando così di relegare le classi popolari nei ghetti delle “167” o nei borghi dormitorio che sorgono al limite dei grandi centri urbani ad edilizia convenzionata. Se un figlio di un residente della upper class andrà a scuola al Visconti di Roma con gente normale non può che trarne beneficio.
Un altro intervento dovrebbe riguardare la filosofia del trasporto pubblico, sviluppando la rete secondo direttrici concentriche e non solo su linee periferie – centro. Un intervento interessante in questo senso che vedrà la luce a Roma nel breve periodo riguarda la linea elettrificata su via Palmiro Togliatti, una sorta di GRA più centrale che unisce Tuscolana a Casilina e Prenestina. Le periferie non debbono essere realtà isolate, ma aggregazioni nelle quali la grande massa critica giustifichi servizi concorrenziali con quelli del Centro. Stessa cosa vale per la miriade di piccoli comuni dell’Area Metropolitana che ormai sono connessi alla rete cittadina e che spingono centinaia di migliaia di pendolari al giorno verso la città. Se non colleghiamo tra loro questi comuni rischiamo che diventino quartieri dormitorio e alla fine si trasformano nelle Banlieue francesi. Alle porte di Roma Zagarolo e Frascati sono discretamente collegate a Roma tramite la rete ferroviaria. Tuttavia, Zagarolo e Frascati (che distano tra loro una ventina di chilometri) non sono collegate ad eccezione di una diligenza che transita due volte al giorno, ragion per cui, quando il costo economico-sociale del trasporto in automobile diverrà impossibile, i ragazzi di Zagarolo e Frascati troveranno più comodo spostarsi verso Roma che nelle cittadine limitrofe per ogni motivo di studio, ricreazione, attività culturali. Questo porterà all’isolamento e ad un ulteriore impoverimento dell’offerta di ogni servizio e ad un rapido declino sociale dei territori.
Un capitolo a parte meritano le cure sanitarie. La logica prevalente fino ad oggi è stata quella di costruire dei mostri sanitari omnicomprensivi e chiudere i piccoli centri. Questo nell’illusione di ottimizzare le spese. Se ti ammali seriamente ad Anzio è facile che finisci al Policlinico di Tor Vergata. Al di là del disagio per il paziente tutto questo si traduce in un pellegrinaggio di parenti e congiunti che ci sposta ogni giorno in direzione dell’ospedale. Alcuni nosocomi, con l’aiuto di volontari, sono stati costretti ad attrezzare foresterie per parenti che debbono e vogliono assistere i pazienti ricoverati per periodi medio-lunghi. Va da se che questo abbia anche dei costi sociali derivati dalla perdita di giornate lavorative di chi deve spostarsi per assistere i ricoverati. Si potrebbe iniziare con il finanziare agli Ospedali uno sportello decentrato per un primo triage e delle navette di collegamento con il luogo dove sarà effettivamente possibile ricorrere a cure, esami strumentali etc. In seguito sarebbe opportuno, con la logica delle periferie ben collegate tra loro, decentrare reparti di eccellenza nelle periferie senza smantellare gli ospedali esistenti.
Esiste un’unica direttrice che nella maggior parte dei casi si muove nella direzione centro-periferia e che è quella verso i grandi Centri commerciali, i quali, per ragioni di spazio, difficilmente sono collocati all’interno del cuore pulsante delle grandi città. Il paradosso è che l’abitante del fuori non solo è sfavorito dalla sua residenza, ma quotidianamente riceve la visita di quelli dentro che vanno a fare la spesa dalle sue parti. Poi quello del dentro la sera torna a casa e va al teatro, quello di fuori, nella migliore delle ipotesi, mangia pop corn e si butta nel multisala che immancabilmente raccoglie soldi all’interno di questi mausolei. Fosse per me questi circhi amministrati da Mangiafuoco andrebbero chiusi o perlomeno non ne andrebbero aperti di nuovi, ma è innegabile che, stante questo sistema di distribuzione la soluzione drastica è irrealizzabile. Qui non ci sono mezzi termini: questi mostri debbono almeno farsi carico economicamente e già in sede di prima progettazione di garantire linee di mobilità agevoli, l’autonomia energetica e una occupazione il più possibile a chilometro zero. Gli enti governativi dovrebbero spendere soldi per occuparne una parte con attività culturali e sociali, rendere anche questi tempi del capitalismo globale permeabili ad attività sociali offerte agli abitanti del fuori.
Per le occasioni di crescita e stimolo culturale si potrebbero, infine, incentivare la costruzione di centri di spesa culturale nelle periferie con il rapporto uno ad uno rispetto a quanto esistente in centro. Per un’attività culturale esistente nel centro (museo, scuola, biblioteca, centri sportivi…) ne deve aprire una gemellata in periferia con scambio continuo di opere d’arte, libri, servizi. Ci piacerebbe avere un Museo capitolino a Cinecittà…
E’ evidente che queste appena accennate siano solo indicazioni di un tale che fa filosofia sull’organizzazione delle città e su una diversa concezione urbanistica. Riflettere su una nuova idea di ecologia, che tenga in conto l’organizzazione della casa e non cerchi delle soluzioni riservate a pochi, percepite come stravaganti, è un dovere di chi ha responsabilità politiche e amministrative. Ma questo non basterà. La riduzione immediata delle emissioni, una trasformazione della crescita (più che una decrescita che non è mai felice) e soprattutto una redistribuzione della ricchezza sono le direttrici essenziali delle nuova ecologia sociale… della quale però non si vede la possibilità di affermazione.

Un pensiero riguardo “Considerazioni per una ecologia sociale”