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“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie una immagine o un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.”
Socrate (Platone, Repubblica)
Socrate era notoriamente un rompiscatole: non poteva rinunciare a fare domande, ad incuriosirsi, a cercare di comprendere il mondo. Diceva di ospitare dentro di sé un demone che lo pungolava ad interrogarsi, a non essere mai soddisfatto delle proprie convinzioni.
Premi e punizioni non potevano farlo desistere dal curiosare e dal dare fastidio.
Non me la sento di dare una interpretazione di cosa intendessero Socrate e Platone per Daimon, però possiamo attualizzare: per noi, penso ad un grande psicologo come James Hillman, questo diavoletto non è altro che la figura mitologica creata per simboleggiare e personificare le pulsioni, i desideri, i bisogni e la vocazione di ognuno. Il daimon è la volontà più intima che disegna il destino degli individui.
La particolarità del diavoletto è terra terra: se decido di seguirlo tutto mi sarà facile, altrimenti sarò infelice per tutta la vita.
Ora non dobbiamo prendere Platone alla lettera, anche perché pare che le cose più importanti non le abbia scritte, ma le abbia rivelate ai suoi allievi. Quindi possiamo soltanto ricostruirle. Platone colloca la nostra vocazione un attimo prima della nascita. Hillman ha trovato la giusta figura: una ghianda che magari si forma già nei primi anni di vita, quando comincia a forgiarsi il nostro carattere, oppure ci è data dai caratteri genetici determinati dall’ambiente.
Il mio amico, Coach Marco Benetti, su questo è pessimista. Mi dice sempre che oggi agiamo al contrario di quanto abbia teorizzato Platone. La nostra società è impostata sul meccanismo del premio e della punizione. Già da quando nasciamo sappiamo che ad ogni nostra azione corrisponderà un buffetto d’incoraggiamento o un rimbrotto. Per cui lui con le sue squadre utilizza un sistema molto semplice: fai le cose per bene giochi, altrimenti panchina.
Ribatto al mio amico che questo fatto sia abbastanza logico perché la società ha trovato così il modo di legare a sé i propri membri: se gli individui eseguono un determinato comportamento sono dentro al meccanismo premiante. Se sei bravo e allineato avrai la tua piccola ricompensa. Funziona così, ma possiamo farci qualcosa.
Per vivere bene non dobbiamo necessariamente rivoluzionare il mondo, questo sistema del premio e della punizione consente l’ordine sociale da decine di migliaia di anni. Sei bravo: carota; sei cattivo: bastone.
Per questo tutti noi indossiamo una maschera, la nostra persona, l’aspetto pubblico che risponde alle aspettative sociali, al personaggio che ci è chiesto di interpretare. Dietro questa maschera, dice Jung, c’è un’ombra, un nostro lato profondo.
Ok, non possiamo vivere in un mondo in cui non ci sia chiesto di indossare una maschera. Forse non è neanche nella nostra natura. Però noi possiamo cambiare un piccolo ingranaggio, quello interiore. Una rivoluzione è un’altra cosa, ma nasce sempre da tanti comportamenti individuali. Dobbiamo imparare ad assecondare il nostro daimon, cercando di motivarci a prescindere dal condizionamento sociale o almeno in maniera compatibile con le strategie sociali alle quali siamo inevitabilmente legati.
Possiamo rischiare: se ho ragione viviamo meglio, se ho torto non cambia nulla.
In epoca moderna, due psicologi, Deci e Rayan, hanno elaborato una teoria, la self determination theory, la quale spiega perché le motivazioni più alte sono quelle che nascono dal nostro gioco interiore e che ci consentono di agire sotto il nostro controllo.
La questione è piuttosto lineare. Se agiamo per un obiettivo che ci è in qualche modo posto dagli altri, il controllo su questo obiettivo è esterno. In questa categoria entrano i classici compiti lavorativi o scolastici. Debbo consegnare un articolo che parla di daimon entro questa sera. Non mi interessa scriverlo, non mi entusiasma. Lo faccio per tenermi il lavoro. Il mio capo avrà il totale controllo su questo processo. Evidentemente la mia motivazione è minima.
Ma se sceglo il mio daimon che nel caso specifico è quello di esprimere le mie convinzioni, discuterne con la gente e modificare la mia opinione per approssimazione crescente al giusto… beh, allora può essere che mi inventi un blog, scriva volentieri e discuta con i miei lettori. E’ tutto sotto il mio controllo e la motivazione è altissima, tanto che per scrivere queste righe ho saltato il pranzo.

Seguire il daimon è fondamentale per il nostro ben – essere.
Tuttavia, anche nel caso in cui ci trovassimo perfettamente in sintonia con il nostro Daimon e ad esempio facessimo un lavoro perfettamente calzante con le nostre aspirazioni originali, non dobbiamo pensare di essere dei monoliti, pezzetti del gioco tetris perfettamente incastrati nelle nostre vite. Anche in quel caso dietro una maschera ci sarà un’ombra, delle pulsioni profondi che abbiamo in qualche maniera accantonato e che non sono realizzate nella nostra esistenza apparentemente perfetta.
Anche in questo caso si tratta, direbbe Jung, di ammorbidire la persona e trovare dei canali per convogliare la nostra ombra.
Nella nostra vita non facciamo altro che cercare di star bene, dovremmo anche passare del tempo con noi stessi per comprendere quale sia il nostro ben-essere che ci è stato affidato nei primi nostri anni di vita e che si è necessariamente modellato sul contesto sociale e sulle continue percezioni che ci provengono dall’esterno.
Come fare in pratica è un discorso complesso che il coach dovrebbe individuare di volta in volta. Poniamo l’esempio di un manager che si senta oppresso dalla sua necessità di non sbagliare, dal personaggio perfetto ed efficiente che si è creato e che tutti si aspettano di applaudire sul palcoscenico.
Potrebbe iscriversi ad un corso di improvvisazione teatrale, trovare sfogo alla sua creatività, alla sua ombra disordinata e irruente.
Il capitano di una squadra di calcio, sempre controllato, positivo, rispettoso del coach e dei compagni potrebbe dover canalizzare la sua ombra aggressiva. A tal fine sarebbe utile praticare un po’ di arti marziali o pugilato.
Chi mi conosce di persona sa che porto un orecchino. Da quando avevo venti anni svolgevo un lavoro che mi obbligava ad un dress code piuttosto severo, a comportamenti inappuntabili, a risposte sempre perfette. Un piccolo punto luce nel mezzo del lobo dell’orecchio è stato uno sfogo della mia ombra e un ammorbidimento della mia persona.
Sono solo piccoli esempi, ma un invito a ricercare il nostro ben-essere avendo presente l’immagine del funambolo, che cerca l’equilibrio su una corda oscillando una volta da una parte e una volta dall’altra, tra la sua ghianda e la sua quercia, perché la ghianda che non diventi quercia, unica e diversa dalla pianta che ha generato la ghianda e una quercia che resti ghianda non si sono mai viste in natura.
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