Squadra che vince… si cambia eccome!

“Squadra che vince non si cambia” è una frase comoda, ma pericolosa. Vale nello sport come in qualsiasi ambiente di lavoro: quando tutto sembra funzionare, smettere di evolvere è il modo più rapido per iniziare a perdere. In questo articolo racconto perché l’instabilità è una risorsa, come l’approccio ecologico fa crescere i gruppi e perché cambiare quando va tutto bene è spesso l’unica strategia davvero vincente.

Eh, ma io sono ecologico da sempre!

Tutti dicono di essere “ecologici”. Quasi nessuno lo è davvero. Nel coaching contemporaneo termini come vincoli, affordance e focus sull’ambiente circolano con disinvoltura, ma il rischio è fermarsi a intuizioni isolate, senza un vero metodo. Essere quasi ecologici non basta: senza una coerenza di sistema, anche le migliori idee perdono forza e generano confusione. Partendo da questa ambiguità, l’articolo compie un passo indietro per andare avanti: John Wooden e Phil Jackson non hanno mai parlato di approccio ecologico, eppure il loro lavoro mostra con chiarezza perché oggi non possiamo farne a meno. Due modelli opposti – valori e stabilità da un lato, gestione del caos dall’altro – che convergono in una stessa figura chiave: il coach come regolatore dell’ecosistema. Un testo per chi sente che allenare non significa più “dire cosa fare”, ma costruire ambienti che educano ogni giorno.

L’urlo di Munch

Tutti parlano di controllo, pochi parlano di percezione. In palestra urliamo perché crediamo che l’errore sia una colpa. Ma se fosse invece la traccia più onesta di come un atleta sta leggendo il mondo? In questo articolo metto in discussione l’allenamento prescrittivo e propongo una svolta ecologica: smettere di correggere il gesto e iniziare a progettare ambienti che insegnano a vedere. Perché il vero problema non è sbagliare, ma non capire perché si sbaglia.